mercoledì 31 dicembre 2008

essere d'accordo


Non che sia necessario essere d'accordo con qualcuno. Ma se proprio devo esserlo, preferisco che sia con gente che stimo.

Che opinione ha di Allevi come esecutore?

«In altri tempi non sarebbe stato ammesso al Conservatorio».
(Uto Ughi, la fonte è qui).

so long, freddie


Un altro grande se ne va.
Freddie Hubbard è morto l'altroieri, 29 dicembre 2008.
Aveva 70 anni, ma da almeno una quindicina non suonava praticamente più, per via di problemi al labbro.
A me piace ricordarlo così, nel pieno delle forze.
Il video è del 1962, con i Jazz Messengers di Art Blakey.

memento per l'anno venturo


Quando l’odio degli uomini non comporta alcun rischio, la loro stupidità si convince presto, i motivi arrivano da soli.

(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte)

martedì 30 dicembre 2008

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Una cosetta mia su "La poesia e lo spirito":
"Consigli di fine anno".

diritto di autodifesa


Questi, ad esempio, erano chiaramente pericolosi terroristi.

lunedì 29 dicembre 2008

una scrittura femminile


Canto della mia nudità

Guardami: sono nuda. Dall'inquieto
languore della mia capigliatura
alla tensione snella del mio piede
io sono tutta una magrezza acerba
inguainata in un color d'avorio.
Guarda: pallida è la carne mia.
Si direbbe che il sangue non vi scorra.
Rosso non ne traspare. Solo un languido
palpito azzurro sfuma in mezzo al petto.
Vedi come incavato ho il ventre. Incerta
è la curva dei fianchi, ma i ginocchi
e le caviglie e tutte le giunture,
ho scarne e salde come un puro sangue.
Oggi, m'inarco nuda, nel nitore
del bagno bianco e m'inarcherò nuda
domani sopra un letto, se qualcuno
mi prenderà. E un giorno nuda, sola,
stesa supina sotto troppa terra, starò,
quando la morte mi avrà chiamato.

Antonia Pozzi

domenica 28 dicembre 2008

non ci sono più i natali di una volta


(ANSA) - LIMA, 27 DIC - L'interesse dei media sudamericani si e' scatenato a Natale sulla nascita di Jesus, figlio di una donna di nome Vergine Maria e un falegname. Jesus e' nato dieci minuti dopo la notte prima di Natale in una clinica di Lima grazie a un parto cesareo deciso all'ultimo momento dai medici. Il caso occupa grande spazio nella stampa peruviana, anche perche' le autorita' di Lima hanno reso noto che il piccolo e' stato il primo bebe' della giornata di Natale iscritto all'anagrafe della capitale.

domenica 21 dicembre 2008

"fannomi onore, e di ciò fanno bene" (Inf., IV, 93)


"Dante non vuole riconoscere che la Commedia è un frutto della fantasia, della sua insuperabile fantasia. Il poema, invece, è la verità, universale e non temporale. Ciò che il pellegrino Dante vede e dice nel racconto del poeta Dante mira a persuaderci di continuo dell'inevitabilità poetica e religiosa di Aligheri. Gli atti di umiltà del poema, da parte del pellegrino o del poeta, stupiscono gli studiosi, ma sono assai meno persuasivi del sovvertimento di tutti gli altri poeti compiuto dalla Divina Commedia e della sua tenacia nel dare risalto al potenziale apocalittico di Dante".

(Harold Bloom, Il canone occidentale)

sabato 20 dicembre 2008

troppo tempo senza scrivere

Alla maniera di Vivian Lamarque

Ho centinaia di metri lineari
di fogli accantonati.
Mi dicono che un giorno ho avuto questa idea
un giorno quell’altra.

Forse anche le idee vogliono vivere
respirare leggere il giornale
le mie sono ali di mosca impiastricciate.

Le idee dovrebbero farsi male
come i bambini scherzando
mangiarsi schioccando le labbra

alle mie ho spezzato le zampette
non ricordo nemmeno più quando.

venerdì 19 dicembre 2008

il piccolo Adolfo


(ANSA)- NEW YORK, 17 DIC - Il piccolo Adolf Hitler non avra' la torta di compleanno con il suo nome: la pasticceria ha mandato indietro l'ordine dei suoi genitori. Il padre del festeggiato, un ammiratore del Fuhrer, aveva chiesto di adornare il dolce con la scritta 'Happy Birthday Adolf Hitler'. Il piccolo Adolf, 3 anni, ha due sorelle con altri nomi ispirati al nazismo: JoyceLynn Aryan Nation, in onore della nazione ariana, e Honszlynn Hinler Jeannie, in onore di Heinrich Himmler.

giovedì 18 dicembre 2008

Xmas is a-comin'

Cartolina di Natale da una prostituta di Minneapolis
(clicca per ascoltare)

Ehi Charlie sono incinta
e vivo sulla Nona Strada
proprio dietro una libreria sudicia
in fondo a Euclide Avenue
e non mi faccio più di roba
e ho smesso di bere whisky
il mio uomo suona il trombone
e lavora alla ferrovia

dice che mi ama
anche se il bambino non è suo
e dice che lo crescerà lui
come se fosse figlio suo
mi ha dato un anello
che portava sua madre
e mi porta a ballare
ogni sabato sera.

E ehi Charlie penso a te
ogni volta che passo accanto a un distributore di benzina
per tutto quel grasso
che ti mettevi sui capelli
ho ancora quel disco
di Little Anthony & the Imperials
ma qualcuno mi ha rubato il giradischi
non è forte questa?

Ehi Charlie sono quasi impazzita
dopo che Mario è stato beccato
perciò sono tornata a Omaha
a vivere con i miei
ma tutti quelli che conoscevo
o erano morti o in galera
perciò sono tornata a Minneapolis
e penso che stavolta ci resterò.

Ehi Charlie credo di essere felice
per la prima volta dopo il mio incidente
vorrei avere tutti quei soldi
che spendevamo per la roba
mi comprerei una rivendita di macchine usate
e non ne venderei neanche una
solo guiderei una macchina diversa ogni giorno
a seconda di come mi sento.

Ehi Charlie per amor di Dio
la vuoi sapere la verità?
non ho un marito
non suona il trombone
mi serve del denaro
per pagare quest'avvocato
e Charlie ehi
forse mi lasceranno uscire su cauzione
per il giorno di San Valentino.

(Tom Waits)

martedì 16 dicembre 2008

che strazio


"Il jazz è tutto uno strazio", mi diceva tempo fa un tizio con il quale mi ero trovato a discutere su un forum internet.
Mia figlia a tre settimane si addormentava solo con Miles Davis, e ora che ha un anno e mezzo balla felice con la musica di Duke Ellington e di Horace Silver.
Il che conferma una mia antica idea circa la natura fondamentalmente involutiva del processi di sviluppo psicofisico dell'homo sapiens sapiens.

lunedì 15 dicembre 2008

per brevità chiamata "sinistra"



Sono nato nel 1975, quindi la mia iniziazione politica, a quattordici-quindici anni, è coincisa con il periodo tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. La caduta del Muro, le rivoluzioni nell'Est Europa, la fucilazione dei Ceaucescu, e poi Mani Pulite, i socialisti insultati dalla folla, quelli dell'allora MSI che agitano i cappi in Parlamento, Occhetto, il PCI che diventa PDS (con tutto ciò che ne segue), la strage di Capaci.

Ricordo la sensazione che qualcosa (provvisoriamente chiamato “prima Repubblica” o “guerra fredda” o tout-court “storia”) stesse per finire e qualcosa di nuovo per cominciare.

Poi è andata come è andata. Discese in campo, e tutto il resto.

Ma quello che volevo dire è che sono l'ultima persona al mondo a poter credere nel marxismo o nel socialismo reale, del quale ho visto la fine ingloriosa. Però mi rimangono alcune convinzioni che in mancanza di un termine migliore si potrebbero definire “di sinistra”.

Nella fattispecie:

che gli uomini nascano liberi e uguali, senza differenze di razza, sesso, religione o nazionalità;

che nessuna forma di totalitarismo, di qualunque marca o colore, sia accettabile;

che lo Stato abbia il dovere di occuparsi in primo luogo dei più deboli e indifesi;

che la vita sociale debba essere cooperazione e solidarietà reciproca, non sopravvivenza del più forte;

che il definirsi “essere umano” sia più nobile e necessario che definirsi “italiano”, “pugliese”, “juventino”, “milanista”, “comunista”, “fascista”, “uomo”, “donna”, “eterosessuale”, “omosessuale”, “cattolico”, “ateo”, “musulmano” e via dicendo;

che il rifiuto della violenza e della sopraffazione, in ogni sua forma, sia il cardine di ogni possibile morale;

che ognuno abbia il diritto di vivere la propria vita privata come meglio crede, senza che nessuno si senta in dovere di insegnargli nulla, tranne il rispetto per gli altri, per chiunque altro;

che per la vita civile sia indispensabile un sano laicismo, che consiste non in un anticlericalismo datato, preconcetto, idiota, ma in una doverosa separazione delle sfere di competenza;

che essere onesti sia più importante che essere ricchi, belli, famosi, potenti, persino più importante che essere felici.

Ho detto convinzioni “di sinistra”, chissà perché. Se qualcuno vede a sinistra qualcosa del genere, per favore mi faccia un fischio.

sabato 13 dicembre 2008

i 99 nomi di Allah - racconto sufi


Parafraso a memoria qualcosa che ho letto non so più dove. Sono sicuro però che la sostanza sia giusta.

Viveva un tempo un uomo molto sapiente e molto pio. Per tutta la vita aveva studiato il Corano e ora aveva raggiunto la perfetta conoscenza.
Quest'uomo aveva letto un detto del Profeta, secondo il quale chi avesse saputo pronunciare correttamente tutti i 99 nomi di Allah sarebbe stato in grado di compiere qualunque miracolo, anche quello di camminare sulle acque. L'uomo era sicuro di pronunciare tutti i 99 nomi correttamente, ma non era mai stato in grado di compiere un simile miracolo, e se ne struggeva.
Un giorno stava camminando lungo le rive di un lago, meditando su una Sura del Corano, quando udì provenire da un'isoletta al centro del lago la voce di un uomo che recitava i 99 nomi di Allah, storpiandoli orribilmente.
Allora il sapiente prese una barca, raggiunse l'isola e vi trovò un vecchio.
- Chi sei tu e che cosa fai qui? - chiese il sapiente.
- Da cinquant'anni mi sono ritirato in meditazione su quest'isola - rispose il vecchio. - Passo le giornate coltivando il mio orto e pregando.
- Tutto ciò è buono, ma debbo dirti che reciti i nomi di Allah in maniera sbagliata. Ti insegnerò io la maniera giusta.
E così, il sapiente insegnò al vecchio il giusto modo di pronunciarli. Poi risalì sulla barca, soddisfatto della buona azione compiuta. Ma, percorsi pochi metri, sentì la voce del vecchio che riprendeva a recitare i 99 nomi di Allah e di nuovo riprendeva a storpiarli.
- Con certe zucche dure non c'è proprio niente da fare - pensò il sapiente, e ricominciò a remare verso la riva
Arrivato a metà del percorso, si sentì battere su una spalla.
Voltatosi, vide il vecchio in piedi sulle acque, che gli chiedeva:
- Scusami tanto, fratello, ma credo di aver dimenticato la giusta pronuncia. Potresti ripetermela, per favore?

venerdì 12 dicembre 2008

paternità, ancora

Un vecchio commento a un post di Nazione Indiana, ripescato in fondo alla memoria del portatile.
E una poesia, sempre di quell'epoca (febbraio 2007).



Mio figlio è ancora da qualche parte nel buio della pancia di mia moglie. Comincia a premere oltre l’osso pelvico, a protrudere in fuori, a influire sul baricentro di lei. A darle nausee.
Io per ora l’ho visto in ecografia: un segmento di due centimetri circa, al centro del quale batteva una virgola luminosa. Il cuore.
Mio figlio non è ancora mio figlio, e io non sono ancora suo padre. Non ho ancora la sua presenza fisica che mi impone di misurare il mio tempo (quello quotidiano, per non parlare del futuro) sul suo, le mie esigenze sulle sue.
Mio figlio (o mia figlia? perché uso il maschile?) è ancora un bolo di cellule (anche mie, in parte) che prendono forma e si differenziano in mezzo ad altre cellule. Quando nascerà sarà un fascio di nervi scossi dal dolore e dalla fame e io sarò un’ombra indistinta che gli cambierà i pannolini sporchi e lo rivestirà di panni lavati e disinfettati.
Dovrò dare una forma alle sue sensazioni e ai suoi pensieri, imporgliela probabilmente, e poi accettare che lui la rifiuti e, odiandomi, si renda (forse) conto di amarmi.
Quando morirò, sarà tutto ciò che resterà di me, nel bene e nel male.



Se riuscirà a smarcarsi
a dribblare le pozze vuote i voli sudici
se attraverserà la soglia intasata
e solleverà dagli specchi la prima pellicola

fino a guardarsi il duro delle ossa

allora
forse

vedrà l’interno dei rumori
e potrà leggere anche sulle labbra di suo padre lo stigma
urticante la paura

attraverso di me conoscerà il boccone
amaro
gli sarà reso noto
che nessuno muore pronto tutti lasciano
una casa abitata. Dovrà rendersi sensibile
ai ruderi alle vene estratte dalla polvere

non saranno suoi i brividi i tendini rotti
né i percorsi obbligati delle mani
dovrà prima imparare ad accogliere le spalle
di chi si abbandona all’abbraccio.

Il suo vero futuro saranno le lunghezze
che mi darà al traguardo.

giovedì 11 dicembre 2008

continuità, paternità


Niente come il diventare padre ti dà il senso della continuità.

Fin quando si è giovani – o comunque, fin quando si ha la responsabilità solo di se stessi, che è più o meno la stessa cosa – ci si rappresenta come il segmento di una semiretta che parte dalla propria nascita e punta verso il futuro. Non si pensa mai a se stessi come punto medio, o peggio ancora come termine di un processo.

Avere un figlio ti mette davanti alla necessità di trasmettere qualcosa: o, come si dice comunemente, educare. Trasmettere che cosa? Come? Questo è il problema. Ma soprattutto ci si rende conto di quanta parte di se stessi derivi da ciò che è stato prima, di come si tenda sempre a replicare stampi preesistenti, insomma di quanto si sia incastonati in un continuum che c'era prima di noi e che proseguirà dopo.

Edipo insegna che, se si uccide il padre, è sempre per poi prenderne il posto.

un colpo magistrale


Dall'autobiografia di Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta, boia dello Stato Pontificio dal 1796 al 1864. Fra supplizi ed esecuzioni capitali, per le sue mani passarono 516 persone.

Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati. Giunto a Foligno incominciai a conoscere le prime difficoltà del mestiere: non trovai alcuno che volesse vendermi il legname necessario per rizzare la forca e dovetti andar la notte a sfondare la porta d'un magazzino per provvedermelo. Ma non per questo mi scoraggiai e in quattr'ore di lavoro assiduo ebbi preparata la brava forca e le quattro scale che mi servivano. Nicola Gentilucci frattanto, a due ore di notte, dopo avergli rasata la barba e datogli a vestire una candida camicia di bucato e un paio di calzoni nuovi, venne condotto coi polsi stretti da leggere manette, nella gran sala comunale, poiché volevasi dare la massima solennità all'esecuzione, stante la gravità del suo delitto, superiore a qualsiasi altro, trattandosi dell'uccisione di un curato e di due frati. La compagnia dei Penitenti Bianchi in abito di cerimonia, col cappuccio calato sul volto, schierata in due file, dalla porta all'estremità opposta l'attendeva. In faccia alla porta era stato collocato un grande crocifisso con due confrati ai lati, e una schiera di religiosi, invitati a confortare il paziente. Il bargello e gli sbirri che lo conducevano, giunti alla porta della sala, bussarono e questa venne aperta. Quella scena commosse vivamente il Gentilucci, nondimeno entrò. Non appena ebbe fatti pochi passi il balio, aiutante del cancelliere, che ne porta gli emblemi, gli presentò una carta dicendogli:

- Nicola Gentilucci, io ti cito a morte per domattina.

Il complimento poco gentile impressionò il condannato per modo che si lasciò sfuggire di mano la carta, e sarebbe caduto egli stesso svenuto, se non lo avessero sorretto il confessore e i confortatori, i quali lo condussero poi in una sala vicina, dove, sdraiato su di un materasso posto per terra, lo lasciarono dormire. Due ore innanzi lo spuntare del giorno susseguente lo svegliarono per fargli ascoltare la messa: il confessore gli parlò e gli impartì l'assoluzione e l'indulgenza in articulo mortis che il papa soleva concedere in tali circostanze. Confessato e comunicato, i confortatori gli apprestarono l'asciolvere. Gentilucci mangiò, bevve e si trovò alquanto rinfrancato d'animo. Nondimeno il confessore lo confortò ancora, assicurandolo che egli stava per avviarsi al cielo. Il condannato avrebbe forse desiderato di differire d'un altro mezzo secolo il viaggio, ma assicurato che non avrebbe che differita la sua felicità, si preparò a farlo allegramente. Mi presentai in quel mentre e togliendomi il cappello ossequiosamente offersi una moneta al Gentilucci, come di rito, perché facesse celebrare una messa per la sua anima. Quindi, ricopertomi il capo, gli legai le mani e le braccia in modo che non potesse fare alcun movimento tenendone i capi nelle mie mani per di dietro. La Confraternita della Morte aperse il corteo. I confrati indossavano il loro saio ed avevano il viso coperto. Essi salmodiavano in tetro tono il Miserere. Venivano poi i Penitenti Azzurri, ultimi i Penitenti Bianchi ai quali era serbato il posto d'onore: cantavano pur essi nel medesimo tono il salmo stesso, seguendo gli uni agli altri, per non interrompersi, di guisa che quando gli uni cantavano gli altri tacevano.

Dopo le confraternite v'erano i bargelli delle città vicine e gli sbirri in grande uniforme, e a questi teneva dietro il paziente, condotto pei capi della fune da me stesso, - umile ma pur raggiante in tanta gloria - circondato dai confortatori e dal confessore. Giunto sulla spianata ove doveva aver luogo l'esecuzione, Nicola Gentilucci fu fatto avvicinare ad un piccolo altare eretto di fronte alla forca e quivi recitò un'ultima preghiera. Poi, rialzatosi, lo condussi verso il patibolo a reni volte, perché non lo vedesse e fatto salire su una delle scale, mentre io ascendevo per un'altra vicinissima. Giunto alla richiesta altezza, passai intorno al collo del paziente due corde, già previamente attaccate alla forca, una più grossa e più lenta, detta la corda di soccorso, la quale doveva servire se mai s'avesse a rompere la più piccola, detta mortale, perché è questa che effettivamente strozza il delinquente. Il confessore e i confortatori intanto, saliti sulle due scale laterali, gli prodigavano le loro consolanti parole. Gli altri confortatori in ginocchio recitavano ad alta voce il Pater noster e l'Ave Maria e il Gentilucci rispondeva. Ma appena ebbe pronunziato l'ultimo Amen, con un colpo magistrale lo lanciai nel vuoto e gli saltai sulle spalle, strangolandolo perfettamente e facendo eseguire alla salma del paziente parecchie eleganti piroette. La folla restò ammirata dal contegno severo, coraggioso e forte di Nicola Gentilucci, non meno che della veramente straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quella prima esecuzione. Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d'una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un accetta gli spaccai il petto e l'addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie riuscissero per davvero esemplari. Avevo allora diciassette anni compiti, e l'animo mio non provò emozione alcuna.

saper piangere (2)


Ma nella grotta il generoso Ulisse
Non era: mesto sul deserto lido,
Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi
Con dolori, con gemiti, con pianti
Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare
Sempre agguardava, lagrime stillando.
(Odissea, Libro V)


Come la fame rintuzzata, e spenta
Fu la sete in ciascun, l'egregio vate,
Che già tutta sentìasi in cor la Musa,
De' forti il pregio a risonar si volse,
Sciogliendo un canto, di cui sino al cielo
Salse in que' dì la fama. Era l'antica
Tenzon d'Ulisse e del Pelìade Achille,
Quando di acerbi detti ad un solenne
Convito sacro si ferîro entrambi.
Il re de' prodi Agamennòn gioìa
Tacitamente in sé, visti a contesa
Venire i primi degli Achei: ché questo
Della caduta d'Ilio era il segnale.
Tanto da Febo nella sacra Pito,
Varcato appena della soglia il marmo,
Predirsi allora udì, che di que' mali,
Che sovra i Teucri, per voler di Giove,
Rovesciarsi doveano, e su gli Achivi,
Si cominciava a dispiegar la tela.

A tai memorie il Laerziade, preso
L'ampio ad ambe le man purpureo manto,
Sel trasse in testa, e il nobil volto ascose,
Vergognando che lagrime i Feaci
Vedesserlo stillar sotto le ciglia.
Tacque il cantor divino; ed ei, rasciutte
Le guancie in fretta, dalla testa il manto
Si tolse, e, dato a una ritonda coppa
Di piglio, libò ai numi. I Feacesi
Cui gioia erano i carmi, a ripigliarli
Il poeta eccitavano, che aprìa
Novamente le labbra; e novamente
Coprirsi il volto e lagrimare Ulisse.
Così, gocciando lagrime, da tutti
Celossi. Alcinoo sol di lui s'avvide,
E l'adocchiò, sedendogli da presso,
Oltre che forte sospirare udillo;
E più non aspettando: "Udite", disse,
"Della Feacia condottieri e prenci.
Già del comun convito, e dell'amica
De' conviti solenni arguta cetra
Godemmo. Usciamo, e ne' diversi giuochi
Proviamci, perché l'ospite, com'aggia
Rimesso il piè nelle paterne case,
Narri agli amici, che l'udranno attenti,
Quanto al cesto e alla lotta, e al salto e al corso,
Cede a noi, vaglia il vero, ogni altra gente".
(Odissea, Libro VIII)

mercoledì 10 dicembre 2008

saper piangere


Quando ho fatto "Giona che visse nella balena" ne promossi la visione nelle scuole ai ragazzi compresi tra i dieci e i sedici anni; questi ultimi erano seduti sempre in fondo e non facevano altro che ridere, i più piccoli, invece, erano seduti ai primi posti e spesso piangevano; un giorno un bambino che era in prima fila, durante la proiezione, si è alzato e ha esclamato: “Zitti voi che non sapete neanche piangere!”.
(Roberto Faenza, regista)

"In questo rio pensier l'aggiunse il figlio 20
di Nestore piangendo, e, Ohimè! gli disse,
magnanimo Pelìde; una novella
tristissima ti reco, e che nol fosse
oh piacesse agli Dei! Giace Patròclo;
sul cadavere nudo si combatte; 25
nudo; ché l'armi n'ha rapito Ettorre.
Una negra a que' detti il ricoperse
nube di duol; con ambedue le pugna
la cenere afferrò, giù per la testa
la sparse, e tutto ne bruttò il bel volto 30
e la veste odorosa. Ei col gran corpo
in grande spazio nella polve steso
giacea turbando colle man le chiome
e stracciandole a ciocche. Al suo lamento
accorsero d'Achille e di Patròclo 35
l'addolorate ancelle, e con alti urli
si fêr dintorno al bellicoso eroe
percotendosi il seno, e ciascheduna
sentìa mancarsi le ginocchia e il core.
Dall'altra parte Antìloco pietoso 40
lagrimando dirotto, e di cordoglio
spezzato il petto rattenea d'Achille
le terribili mani, onde col ferro
non si squarciasse per furor la gola.
Udì del figlio l'ululato orrendo 45
la veneranda Teti che del mare
sedea ne' gorghi al vecchio padre accanto.
Mise un gemito, e tutte a lei dintorno
si raccolser le Dee, quante ne serra
il mar profondo, di Nerèo figliuole 50
Glauce, Talìa, Cimòdoce, Nesea
e Spio vezzosa e Toe ed Alie bella
per bovine pupille, e la gentile
Cimòtoe ed Attea: quindi Melìte
e Limnòria e Anfitòe, Jera ed Agave, 55
Doto, Proto, Ferusa e Dinamena
e Desamena ed Amfinòma e seco
Callïanìra e Dori e Panopea,
e sovra tutte Galatea famosa;
v'era Apseude e Nemerte e con Janira 60
Callïanassa ed Ïanassa; alfine
l'alma Climene, e Mera ed Oritìa
ed Amatea dall'auree trecce, ed altre
Nerëidi dell'onda abitatrici.
Tutto di lor fu pieno in un momento 65
il cristallino speco, e tutte insieme
batteansi il petto, allorché Teti in mezzo
tal diè principio al lamentar..."
(Iliade, libro XVIII)

"Disse cosí, e gli fece nascere brama di piangere il padre:

allora gli prese la mano e scostò piano il vecchio;

entrambi pensavano e uno piangeva Ettore massacratore

a lungo, rannicchiandosi ai piedi d’Achille,

ma Achille piangeva il padre, e ogni tanto

anche Patroclo; s’alzava per la dimora quel pianto.

Ma quando Achille glorioso si fu goduto i singhiozzi,

passò dal cuore e dalle membra la brama,

s’alzò dal seggio a un tratto e rialzò il vecchio per mano,

commiserando la testa canuta, il mento canuto,

e volgendosi a lui parlò parole fugaci..."

(Iliade, libro XXIV)

aforisma


I filosofi sono gli onanisti del pensiero.

martedì 9 dicembre 2008

l'amore NON è uguale per tutti


... non in Italia, almeno:
http://www.nazioneindiana.com/2008/12/0 ... more-12114
http://titofaraci.nova100.ilsole24ore.c ... ia-co.html

emergenza: corollario

A corollario del post precedente, un po' di link sul rapporto tra pensiero, linguaggio e metafore:
Girolamo De Michele su Carmilla;
un brano di Lakoff da Doctor Blue and Sister Robinia.

emergenza! emergenza!


“Gomorra” si chiude con un'immagine biblica. Nelle campagne del napoletano è scesa una pioggia torrenziale, che ha smosso la terra e ha fatto riemergere tutto ciò che vi era contenuto: tonnellate di rifiuti, seppelliti abusivamente dalla camorra.

Rileggendo quelle pagine, mi sono trovato a pensare che l'immagine in fondo abbia un valore allegorico.

L'etimologia non mente: “emergenza” è deverbale di “emergere”, che deriva dal latino ex (fuori) + mergere (tuffarsi), quindi “tuffarsi fuori”. Se ci si tuffa “fuori”, significa che prima ci si è tuffati “dentro”, ci si è immersi (in + mergere). In questo senso l'italiano è portatore di un'ambiguità semanticamente feconda, perché ad esempio in inglese l'atto dell'emergere (emergence) è indicato da una parola distinta rispetto all'emergenza (emergency). In italiano invece la parola è la stessa.

Dove voglio arrivare? È presto detto. L'Italia è il paese dell'emergenza. Tutto è un'emergenza: la sanità, la droga, il maltempo, la neve, la siccità, il Vesuvio, il bullismo, la questione morale, i rifiuti, il buco nel bilancio, le slavine d'inverno, la siccità d'estate, il traffico e lo smog in qualunque stagione.

Siamo un paese che vive sull'orlo di una crisi di nervi, dal quale ogni tanto sale lo stridore di una nuova emergenza. Però poi tutto s'azzitta. E c'è un motivo: quei problemi non sono affatto emergenze, anzi sono fatti usuali, che hanno cause ben precise, prevedibili nel lungo termine. È normale che ci sia la neve d'inverno, che piova poco d'estate, che le auto generino smog, che i rifiuti non smaltiti finiscano per accumularsi nelle strade. Solo che nessuno si preoccupa di risolvere i problemi, di troncarne le radici prima che diventino troppo robuste e profonde.

E qui si inserisce l'ambiguità di cui parlavo: l'emergenza/emersione è tale perché, prima, qualcuno ha sommerso il problema, ha evitato di risolverlo, l'ha occultato. Sperando, forse, che la patata bollente scottasse le mani di qualcun altro.

Quando poi l'emergenza scoppia, non si prendono provvedimenti sostanziali, ma ci si limita ai palliativi, o si invocano interventi palingenetici, che dovrebbero risolvere il problema all'istante, ora e sempre, e nessuno dovrà più preoccuparsene.

Un esempio classico di emergenza è la scuola: che in Italia è sempre, costantemente in emergenza. Emergenza bullismo, emergenza precari, emergenza analfabetismo di ritorno, emergenza nelle conoscenze matematiche, emergenza perché mancano i fondi o perché i muri sono pieni di fessure.

Le soluzioni sarebbero semplici ma impegnative: monitorare la qualità della scuolain maniera costante e onesta; premiare i più bravi; cacciare gli incapaci; distribuire fondi con criteri ragionevoli; trasformare i professori da reietti sociali con deficit d'autostima, o missionari sempre impegnati a combattere sulla trincea con le unghie e con i denti, in professionisti seri, preparati, orgogliosi del proprio lavoro; migliorare i contatti tra scuole, provveditorati e ministeri; far tenere i corsi d'aggiornamento a gente in gamba e non a grigi e inetti funzionari; ridurre la burocrazia; assicurare ai docenti un posto fisso e non decenni di precariato; far sì che i professori si aggiornino, invece di mummificarsi sulle cattedre.

E invece si preferisce ricorrere alle grandi riforme, che – si promette – saneranno una volta per tutte la disastrata scuola italiana. Salvo che poi la montagna partorisce il topolino, il quale di volta in volta si chiama “riforma Moratti” o “riforma Gelmini”.

Dopodiché, l'emergenza si sommergerà nuovamente. I controsoffitti continueranno a scricchiolare, ma la speranza è sempre che cadano in testa a qualcun altro.

lunedì 8 dicembre 2008

paul desmond, umorista


“Come il jazz arrivò alla fiera dell'Orange County”.


Articolo comparso il 10 gennaio 1973 sul giornale inglese “Punch”. Queste pagine sono l'unico stralcio sopravvissuto dell'autobiografia che Paul Desmond avrebbe voluto scrivere, e che si sarebbe dovuta intitolare “In quanti siete nel quartetto?”. (La traduzione è mia, l'originale è qui).


Alba. Una station wagon si ferma davanti all'ufficio di uno sperduto motel nel New Jersey. Tre uomini entrano: faccia di gesso, occhi pesti, bocca chiusa (questi sono i loro nomi). Una perfetta scena d'apertura, prima dei titoli di testa, per un B-movie su una rapina in banca? Sbagliato. Il Dave Brubeck Quartet, qualche anno fa, sul punto di cominciare una giornata di lavoro.

Oggi abbiamo un contratto (un'offerta che avremmo dovuto rifiutare) per due concerti alla fiera dell'Orange County a Middletown. Uno alle due del pomeriggio, l'altro alle otto di sera. A Brubeck piace essere presto al lavoro.

Quindi ci fermiamo dietro questo questo camion carico di fieno intorno a mezzogiorno, e alla fine rintracciamo il tizio che ha firmato il contratto. Massiccio, con il collo rosso, modi ruvidi e aria infastidita (dal vecchio omonimo studio legale del New Jersey), e chiaramente più a suo agio nel giudicare il bestiame che nell'ingaggiare gruppi jazz, scruta dentro la station wagon, che contiene quattro musicisti, il contrabbasso, la batteria e bagagli assortiti, e per la prima e unica volta nei nostri diciassette anni di vagabondaggi in giro per il mondo ci sentiamo rivolgere la domanda: “Dov'è il pianoforte?”.

Lasciamo Brubeck a sbrogliare la questione e ci dirigiamo in città per prendere un sandwich e dare un'occhiata. Dato che i sandwich prendono più tempo dell'occhiata, mi procuro una copia del “Middleton Record” e le cose cominciano a farsi più chiare. IL GIORNO DEGLI ADOLESCENTI ALLA FIERA DELL'ORANGE COUNTY, dice il titolo sulle due pagine centrali (scelta azzardata, poiché il giornale ha quattro pagine in tutto). Questi poveracci, e in particolare il tipo che giudica il bestiame (al quale probabilmente è stata appioppata l'organizzazione degli intrattenimenti) hanno pensato che noi fossimo una grande attrazione per adolescenti, e il Signore è testimone che non lo siamo mai stati. Il nostro pubblico tipico inizia con decrepiti vecchietti dai ventitre anni in su.

Eppure eccoci qui, spiattellati su questa pubblicità insieme alle altre attrazioni della giornata: esibizioni di judo, dimostrazioni di pompieri, uno show del selvaggio West e l'Animalorama (che potrebbe essere un semplice errore di battitura). E proprio in cima, nelle prime due colonne a sinistra, c'è questa foto dei denti di Brubeck e di buona parte della sua faccia, insieme al seguente testo, che parafraso solo leggermente. ASCOLTATE LA MUSICA CHE FA ECCITARE TUTTI GLI ADOLESCENTI, così comincia. ASCOLTATE LA MUSICA CHE HA FATTO IMPAZZIRE NEWPORT RHODE ISLAND (citazione infelice, dato che poche settimane prima il festival di Newport aveva assistito alla sua prima rissa). ASCOLTATE DAVE BRUBECK CANTARE E SUONARE I SUOI FAMOSI SUCCESSI, TRA I QUALI “JAZZ GOES TO COLLEGE”, “JAZZ IN EUROPE” e “TANGERINE”.

Perciò, essendoci resi conto – secondo una pungente espressione campagnola tipica di Brubeck – della parte da cui pende il buco, torniamo verso la fiera dove ci si presenta più o meno questa scena: c'è una minuscola, quasi miniaturizzata pista da corse ellittica. (Non sono sicuro di quanto sia lungo esattamente un furlong [antica unità di misura inglese corrispondente a circa 200 metri, oggi usata soprattutto per misurare le piste per le corse di cavalli. NdT], ma non mi pare che qui ce ne siano molti a disposizione). Su un lato dell'ellisse c'è la tribuna, costruita per accogliere circa 2000 spettatori, occupata per il momento da otto o nove vecchietti che hanno chiaramente pagato per sedere all'ombra e sventolarsi, e non certo per un ardente desiderio di ascoltare la musica che fa eccitare tutti i loro nipoti adolescenti.

Sul lato opposto della pista c'è il nostro palcoscenico: una piattaforma di legno alta circa tre metri e immensa. È evidente che in tutta Orange County non si è riusciti a rintracciare un pianoforte, perché le uniche attrezzature sul palco sono un vecchissimo organo elettrico e un microfono. Dietro di noi c'è un tendone di discrete dimensioni, dove si sta svolgendo una gara di equitazione per adolescenti: che, come non tardiamo a scoprire, continuerà durante tutto il nostro concerto. È un bel problema, soprattutto perché il loro sistema di amplificazione è di gran lunga più potente del nostro.

Quindi attacchiamo con il nostro brano di apertura per le situazioni disperate, “St. Louis Blues”. Brubeck, che in vita sua non ha passato più di dieci minuti a suonare un organo elettrico, e ancora meno a suonare quello che ha davanti adesso, produce suoni simili a quelli dei primi sintetizzatori Atwater-Kent. (Più tardi fa alcuni importanti progressi, ad esempio localizza il pedale che controlla il volume e capisce che scuotendo la mano destra ottiene un effetto di tremolo simile a quello di Jimmy Smith, con uno strascico finale, ma non è di grande aiuto). Eugene Wright, il nostro nobile contrabbassista, ed io ci diamo il cambio a trascinare il microfono avanti e indietro dall'uno all'altro per suonare qualche infelice, maledetto chorus, ma l'unico suono che riusciamo a udire viene dai nostri amabili vicini della gara di equitazione.

GALOPPO”, ruggisce l'altoparlante. “CANTER... TROTTO... E LA VINCITRICE NELLA CATEGORIA DEI DODICENNI È... JACQUELINE HIGGINS!”.

Come sempre, in situazioni difficili come questa, ci affidiamo alla nostra star, il virtuoso del gruppo, la Maria Callas della batteria, Joe Morello, che ci ha salvati dai disastri da Grand Forks, North Dakota, fino a Rajkot, India.

È tutta tua”, gli diciamo, “allargati pure”, che in genere è come procurare un biglietto aereo a un dirottatore. E, a suo eterno merito, Morello supera se stesso. Tutti i piatti tintinnano, tutti i piedi lavorano. (Morello ne ha parecchi. Non sono in molti a saperlo). Ora sta sgranando terzine sul tom-tom, che ha fatto tremare dalle fondamenta le sale dall'Odeon Hammersmith alla Free Trade Hall e ha reso Buddy Rich ancor più verde del solito per l'invidia.

All'improvviso l'esibizione di cavalli tace. Lo sventolamento in tribuna si è a poco a poco arrestato.

All'improvviso una figura emerge dal tendone dei cavalli, si precipita accanto al palcoscenico e urla a Brubeck: “Per amor del cielo, potete dire al batterista di non suonare così forte? Sta terrorizzando i cavalli”.

Poiché siamo sempre stati una band capace di accettare sportivamente una disfatta, suoniamo una sorta di Muzak per un tempo conveniente e poi sbaracchiamo.

Quando ritorniamo alle otto, tutto è cambiato. È stato trovato un pianoforte, la tribuna è affollata del nostro seguito geriatrico di venticinquenni e oltre, e suoniamo un concerto del tutto rispettabile.

Eppure, anche così la scena ci viene rubata dal gran finale della fiera: la dimostrazione dei pompieri. Un gruppo di residenti del luogo è stato bendato e truccato in modo da farli apparire come se fossero appena saltati giù dall'Hindenburg e fossero prossimi all'estrema unzione. Ma invece di restarsene discretamente dietro le quinte fino all'entrata in scena, si mescolano in maniera del tutto informale con amici e vicini di casa fra il pubblico durante la serata, sorseggiando birra, masticando popcorn, dando una bizzarra aria felliniana all'accolita e abbassando in misura considerevole l'impatto della loro apparizione finale.

Dopo la loro sfilata, arriva l'evento principale della fiera, che è stato chiaramente preparato per mesi: uno scontro di auto in fiamme, seguito da uno scontro di aerei in fiamme, entrambi destinati ad essere gestiti con fulminea efficienza dal corpo di pompieri di Middleton. A una estremità dell'ellisse c'è un'automobile in equilibrio precario; all'altra estremità, un modello della struttura di un aereo monomotore, davvero impressionante, con la coda per aria. A metà strada, nell'occhio del ciclone, il furgone dei pompieri di Middleton, irto di scale e pompe e straripante di volontari.

Una serie di “shhh” passa per la tribuna. A un segnale del capo dei pompieri, viene dato fuoco all'automobile. Il furgone la raggiunge in due o tre secondi, tempo durante il quale il fuoco è più o meno equivalente a quello creato da una sigaretta caduta sul sedile posteriore per due o tre secondi. Un sacco di uomini lo spengono con parecchie pompe.

Un brusio passa per la tribuna. Il capo dei pompieri, con la dolorosa consapevolezza che il suo gran momento è in gioco, dà il segnale di incendiare l'aereo, e allo stesso tempo raccomanda al furgone di prendersela comoda, in modo che il fuoco sia in pieno vigore al suo arrivo. Il furgone si avvia, con l'andatura di un taxi in cerca di clienti. L'aereo dà un WOOOSH simile a quello di un lampo al magnesio, e quando il placido furgone arriva il fuoco si è ridotto a un bel focherello da campo, grande abbastanza per arrostirci toffolette.

Più tardi, quattro uomini dalle facce di gesso e dagli occhi pesti si pigiano in una station wagon e vanno via. Non sarà come rapinare banche, ma ci si guadagna da vivere.


venerdì 5 dicembre 2008

allegro girotondo


Il mio primo conto in banca lo aprii quando ero studente universitario. Vivendo a Perugia, scelsi la Banca dell'Umbria. Banca illustre, fondata nel 1462, come recita il logo.
Lo mantenni anche quando cominciai a lavorare, "rinegoziando le condizioni" come si dice in gergo. In pratica, pagando di più.
Poi, qualche anno fa, la Banca dell'Umbria entrò in Unicredit. E fin qui poco male.
Poi, tre anni fa, mi sono sposato e con mia moglie abbiamo deciso di aprire un conto cointestato. Abbiamo pensato di farlo su un'altra banca: non si sa mai. E abbiamo scelto la Banca di Roma.
Senonché, dopo pochi mesi, Banca di Roma è entrata in Unicredit, e noi ci siamo trovati con due conti su due banche che facevano capo allo stesso gruppo. E qui va già un po' meno bene.
Poi, quest'estate, Unicredit si è riorganizzata e ha deciso che tutte le sue filiali del Centro-Sud avrebbero dovuto far capo al gruppo Unicredit Banca di Roma: compresi i nostri due conti. E quindi ci siamo ritrovati con due conti su due diverse filiali perugine della stessa banca. E qui va decisamente male.
Poi, casualità delle casualità, il mese scorso la filiale della Banca di Roma (quella originale) è stata venduta da Unicredit a CredEm (Credito Emiliano), compreso il nostro bel conticino. Che quindi non è più su Unicredit.
Riassumo per chi si fosse perso: primo conto su Banca dell'Umbria, che poi diventa Unicredit; secondo conto su Banca di Roma, che poi diventa anch'essa Unicredit; rimpasto di Unicredit, e tutte e due le filiali diventano Unicredit Banca di Roma; vendita della filiale, e uno dei conti diventa CredEm. Risultato finale: un conto è su Unicredit, l'altro su CredEm (a quali condizioni, si vedrà: loro si stanno ancora riorganizzando).
Bene, direte voi: solo che, in tutto questo allegro girotondo, nessuno si è mai sognato di avvertirci delle decisioni se non a cose fatte. I soldi, vivaddio, erano sempre i nostri. Ma noi, come persone fisiche, non contavamo.
Io pensavo di tornare ai vecchi sistemi. Sto già preparando il materasso.