venerdì 9 gennaio 2009

1973 in jazz (per Antonio)


Grande annata per il rock, il 1973, scrive giustamente Antonio.
E allora mi sono chiesto che cosa stava succedendo nel frattempo nel jazz.
Intanto, c'era un bel po' di movimento in Europa, e in particolare in casa ECM. In quell'anno Jan Garbarek e Bobo Stenson pubblicavano “Witchi-Tai-To”, una delle pietre miliari del jazz europeo, Dave Holland faceva uscire lo splendido “Conference of the Birds” (disco da isola deserta, non fosse altro che per l'opportunità irripetibile di ascoltare, fianco a fianco, due maestri come Sam Rivers e Anthony Braxton) e di Keith Jarrett vedeva la luce “Solo concerts: Bremen/Lausanne”, uno dei suoi capolavori in piano solo, molto più del battutissimo “Koln Concert” di due anni dopo.
Sulla scena free, la Globe Unity Orchestra, fondata e diretta da Alexander von Schlippenbach, apriva nuove strade per l'improvvisazione radicale con “Live in Wuppertal” (FMP) e Giorgio Gaslini coniugava jazz e impegno civile con “Fabbrica occupata” (P.A.).
In Gran Bretagna, intanto, un manipolo di jazzisti sudafricani in esilio dall'apartheid univa le forze con i migliori musicisti inglesi (Chris McGregor's Brotherhood of Breath, “Travelling Somewhere”, Cuneiform).
In Italia, c'era chi soffriva malinconie negre (Perigeo, “Abbiamo tutti un blues da piangere”, RCA ) e chi cominciava sotto un segno provocatorio un cammino breve ma folgorante (Area, “Arbeit Macht Frei”, Cramps).
Dall'altra parte dell'oceano, l'Art Ensemble of Chicago intonava canti di battaglia con “Fanfare for the Warriors” (Koch), Sun Ra ribadiva che il suo posto non era su questo pianeta (“Space Is The Place”, Blue Thumb), Herbie Hancock dirigeva la bussola in un punto imprecisato tra l'Africa e il jazz con “Sextant” (Columbia) e subito dopo andava a caccia di trofei con le armi funk elettrificate degli “Headhunters” (Columbia). John McLaughlin faceva levare in un volo fiammeggiante la sua Mahavishnu Orchestra (“Birds of Fire”, Columbia), i Return To Forever di Chick Corea abbandonavano le soavi tinte brasiliane dei dischi precedenti per innalzare un fragoroso inno cosmico (“Hymn of the Seventh Galaxy”, Polydor), Gato Barbieri immergeva il jazz in un brodo primordiale panamericano (“Chapter One: Latin America”, Impulse!).
C'era voglia di sperimentare, ricerca costante del nuovo, assoluta indifferenza verso tutte le barriere tra generi e stili. Averne oggi, di musicisti così.
Sul jazz anni '70 sono in arrivo aggiornamenti. Stay tuned.

2 commenti:

antonio lillo ha detto...

scusa il ritardo mostruoso con cui ti rispondo ma continuo ad avere dei problemi con internet! comunque grazie per questo pezzo! grazie anche per il pezzo sul jazz dei '70 che leggerò al più presto! bella anche la poesia su achille che già mi mandasti qualche mese fa! ma ti dirò che ancora di più mi piace quella su new york e i ratti... molto molto bukowskiana ma con un tocco di eleganza europea in più ;-) insomma perfetta!

ti seguo sempre sergio, purtroppo ho problemi a postare i miei commenti! ma del resto l'importnate non starti vicino col pensiero? ;-)

Anonimo ha detto...

Per la cronaca, quella del topo è vera...