sabato 21 marzo 2009

italo calvino 4 - Vittorini e l'utopia

Pavese e Vittorini erano stati i due scrittori italiani più influenti per la giovinezza di Calvino.
I loro libri (Lavorare stanca, La casa in collina, Conversazione in Sicilia, Uomini e no, l'antologia Americana) erano stati i testi fondanti della sua generazione, e lui stesso si era trovato a lavorare fianco a fianco con loro all'Einaudi per anni.
Gli anni Sessanta vedono un progressivo distacco di Calvino da entrambi. Di Pavese abbiamo detto la volta scorsa. Congedandosi da Vittorini, Calvino si congeda anche da molte delle idee che avevano segnato la sua gioventù: la fiducia nel ruolo sociale e politico dell'intellettuale, nella sua capacità di progettare una società nuova e di accompagnarne la nascita, la razionalità illuministica, l'umanesimo.
Di Vittorini, Calvino cerca di salvare almeno l'utopia, quell'utopia che sarà la cifra principale del suo capolavoro degli anni Settanta: Le città invisibili.
I capitoli precedenti: introduzione / la fine dell'impegno (1974-1985) / la belle époque inaspettata / Pavese se ne va.

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Il saggio del ‘67 Vittorini: progettazione e letteratura rappresenta, alla vigilia del trasferimento a Parigi, quasi un congedo da un intellettuale che era stato a lungo un compagno di strada e la cui esperienza letteraria ed esistenziale si era più volte incrociata con la sua.
Nel definire le caratteristiche salienti del Vittorini saggista e le categorie di pensiero che lo guidavano, Calvino sembra continuamente sforzarsi di tracciare paralleli e differenze con quella che era ed era stata la sua propria attività. La sua opera, ad esempio, viene caratterizzata soprattutto da un’istanza di “progettazione”, che si esprime sia nella sua continua attenzione al presente, sia nel suo rifiutarsi di fermarsi sulle posizioni via via raggiunte. Lo scopo di Vittorini è

contestare le nozioni abitudinarie siano esse percettive o linguistiche o concettuali [...] stabilendo il modo di una nuova percezione, [ma] non lasciarsi mai prendere fino in fondo dal meccanismo dell’astrazione mentale.

Sono posizioni sicuramente molto vicine a quelle di Calvino, che alla “passione ordinatrice e catalogatrice” affiancava sempre la riluttanza a lasciarsi assoggettare da un particolare metodo o punto di vista. Anche Calvino lo ammette quando scrive:

Spero di non stare forzando le linee del progetto vittoriniano per avvicinarle al punto in cui oggi mi accade di trovarmi, cioè per identificare il suo metodo con quello del modello costruito per via deduttiva e che ha valore d’ipotesi operativa fino a quando non viene smentito sperimentalmente.

Al contempo, però, emergono evidenti le differenze, ad esempio tra l’umanesimo di Vittorini e l’aspirazione di Calvino a “spostarsi verso una conoscenza in cui ogni ipoteca antropocentrica sia abolita”, o tra la fiducia incondizionata di Vittorini nel progresso e nella tecnologia e il sottile scetticismo che Calvino comincia a nutrire nei confronti della società contemporanea (“la sempre più odiata storia contemporanea” di cui parlava Fortini [1]). Se Vittorini “crede che il mondo esiste nella sua ricchezza sensibile e fruibilità o intollerabilità immediate [...], crede nella conoscibilità del mondo [...] e crede nel cambiamento del mondo attraverso la pratica”, nelle pagine calviniane la distanza tra modelli logici e mondo sensibile si farà sempre più marcata, fin quasi a identificare nei primi l’unica realtà conoscibile e nel secondo il caos, il disordine, l’entropia, e a smarrire la fiducia che l’intellettuale possa davvero agire nella politica e nella società.
Di certo, un’esigenza di Vittorini che Calvino sentiva molto vicina a sé è quella di tenere sempre agganciati il momento della contestazione e quello dell’affermazione, ossia di non ridurre la letteratura a una pura e semplice “negazione” (si pensi ad esempio a certa neoavanguardia), ma di tenere aperta la strada per proporre un “valore letterario affermativo”. Come si legge in uno scritto del ‘63, indirizzato ad Angelo Guglielmi, che aveva contestato le posizioni espresse da Calvino nella Sfida al labirinto:

A me, tutte le riduzioni a zero mi interessano e rallegrano per vedere cosa ci sarà dopo lo zero, cioè come riprenderà il discorso [...]. Mi vuoi convincere [...] che la realtà non ha senso? Io ti seguo, contentissimo, fino alle ultime conseguenze. Ma la mia contentezza è perché già penso che, arrivato all’estremo di questa abrasione della soggettività, l’indomani mattina potrò mettermi [...] a re-inventare una prospettiva di significati.

Anche molti dei punti di riferimento del loro discorso critico degli anni ‘60 erano stati gli stessi (Robbe-Grillet, Butor, Uwe Johnson, etc.). In più, nell’individuare i possibili sviluppi delle posizioni vittoriniane, Calvino enumera proprio gli autori che stavano prendendo importanza fra i suoi propri modelli: dopo aver parlato dei legami di Vittorini con la cultura francese e della sua opposizione all’area “postsurrealista” rappresentata da Bataille o Blanchot, prosegue: “eppure, [...] non è detto che non si possa derivare dal surrealismo una visione del mondo simile a quella cui Vittorini tende. E questo è provato da Raymond Queneau”.
E, poco più avanti, cercando di delineare la figura di un intellettuale che potesse essere “l’interlocutore ideale di [...] Vittorini”, ne individua il modello in Roland Barthes: “orecchio attento a ricevere dai testi letterari l’informazione più sottile e umbratile, e abito mentale rigoroso nel sottomettere la complessità del reale a un metodo semplificatore e razionalizzatore: questi potrebbero essere - come in Roland Barthes - i connotati di un nuovo tipo d’intellettuale”.
Insomma, proprio alle soglie di un periodo in cui la lezione vittoriniana di impegno e combattività andrà pian piano sfumando, Calvino cerca di trarre dalla sua opera un consuntivo e di estrapolarne le linee di una nuova poetica.
Ciò che di Vittorini può restare come testamento è “il primato dell’esperienza e dell’immaginazione sull’assolutizzazione ontologica o gnoseologica o moralistica o estetistica: poesia scienza tecnologia sociologia politica come esperienza e immaginazione. Qui sta il senso di un lavoro che tende a muoversi dalla profezia al progetto, senza che la sua forza visionaria e allegorica si perda”.
Non a caso, uno degli ultimi interventi calviniani su Vittorini sarà un pezzo del ‘70 sulle Città del mondo, che mette in risalto proprio la profonda componente utopica che sta alla base di tutta l’opera vittoriniana e che non si può non avvicinare a quella che Calvino coltiverà nelle Città invisibili.

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[1] Cfr. Ritorno al Calvino critico e giornalista, “Corriere della Sera”, 10 aprile 1989, pag. 3. Si tratta di una recensione a Le capre di Bikini di Gian Carlo Ferretti, in cui Fortini, con l’acutezza del vecchio avversario ideologico, avverte nell’opera saggistica di Calvino il progressivo perdersi di quell’ “attrito” con il reale che all’inizio ne costituiva il nerbo: “[nella] prima parte della sua opera, il reale gli fa resistenza [...]. Ove quella “sfida” decada, Calvino splendidamente decade”.

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