venerdì 20 marzo 2009

recensioni in pillole 10: "L'innocenza del male"


Antonio Lillo, “L'innocenza del male”, Lietocolle 2009

Scrivere poesia vuol dire sempre, in qualche modo, scommettere: sulle proprie esperienze, sulla propria visione del mondo, sulla propria personalità intera, e sulla capacità di trasformare tutto ciò in lingua (o, se vogliamo, di trasformare la lingua in tutto ciò). C'è chi scommette verso l'alto, verso il sublime, e chi verso il basso, verso il quotidiano: e non è detto che una scelta sia più o meno facile o difficile o rispettabile dell'altra
Antonio Lillo segue la seconda strada: la sua è una lingua che parte dal sermo cotidianus, da frammenti di conversazione di tutti i giorni, per realizzare dei piccoli scarti laterali, delle piccole levitazioni.
Il libro è, per esplicita ammissione dell'autore, il diario di un anno, il 2007, e nella sua trama emergono, quasi di straforo, frammenti di esperienze, allusioni, flash privati.
Ogni tanto Lillo inserisce alcune liriche dialettali, nelle quali il medium espressivo facilita ancor di più la freschezza, l'aderenza alle cose, rendendo l'impressione di una lingua viva, colta e assemblata direttamente da anonime bocche parlanti.
Se un limite si può individuare, è in qualche passo dove si avverte un eccessivo ricalco di modelli illustri (Montale, Fortini, Bertolucci, Pasolini). Il libro, in realtà, è percorso da una fitta trama di citazioni, implicite o esplicite, di cui l'autore stesso si dimostra ben cosciente (“i poveri Strumenti umani / che cito senza ritegno”). A volte il gioco rischia un po' di cadere nel meccanico, di portare troppo alla luce una dialettica che potrebbe (dovrebbe?) rimanere più implicita, sotterranea. In questo senso, funziona meglio una poesia come Pasolini, dove il dialogo con il poeta viene portato avanti a carte scoperte, in seconda persona; qui Lillo rischia parecchio sul versante del prosastico, della poesia-pensiero (seguendo, del resto, il modello pasoliniano), ma riesce anche a riprendersi prima di cadere, grazie a un abile wit finale che interviene a sdrammatizzare il tono quando rischiava di diventare troppo serioso.
L'impostazione diaristica espone inevitabilmente al rischio di incorporare e di portarsi dietro qualche scoria: ma in fondo fa parte del gioco. Ciò che sempre salva l'autore è l'orecchio, l'intuito per la lingua e per il “tono” giusto, quello che permette di mantenere il verso in carreggiata.
È, in fondo, l'unica vera forma di etica possibile in poesia.

(Cliccare sul titolo per leggere alcuni testi).

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