sabato 31 ottobre 2009

lampi - 33

Si chiede se sia meglio odiare i singoli uomini, ma amare l'umanità, oppure viceversa.

venerdì 30 ottobre 2009

dei delitti e delle pene

La vicenda di Stefano Cucchi è orrenda, ma almeno è venuta alla luce, e c'è qualche speranza che vi si faccia chiarezza. Lo stesso per casi arrivati all'onore delle cronache, come quelli di Federico Aldrovandi o Gabriele Sandri.
(Su Bolzaneto e sulla Diaz, stendiamo un pietoso velo).
Il punto è: quante altre porcate simili succedono senza che nessuno ne parli?
Vi faccio un esempio: provate a cercare su Google "Aldo Bianzino", e poi ditemi se ne avevate mai sentito parlare.
E' successo giusto due anni fa, a pochi chilometri da casa mia (voglio dire: non nell'Argentina o nel Cile degli anni '70), eppure anch'io l'ho saputo di recente, e per puro caso.
Ma in che paese viviamo?

recensioni in pillole 40 - "S."

Gipi, S., Coconino Press 2007 (112 pp., 15 €)

Continua la mia dipendenza da Gipi (con questo siamo a quattro solo quest'anno). D'altra parte io non ho la minima intenzione di far nulla al riguardo. Ormai Gipi mi sembra di conoscerlo da sempre, e ogni volta che compro un suo libro mi pare di ricevere la lettera di un amico.
Questo l'ho comprato ieri mattina e ho finito di leggerlo stanotte, verso l'una.
"S." è Sergio, il padre dell'autore, il centro della storia. Attorno a lui si costruisce un racconto fatto di andirivieni tra passato e presente, con due episodi che fanno da cardine alla narrazione: una gita in barca che per poco non finisce male e il bombardamento americano su Pisa del 31 agosto 1943, in cui il padre e la madre rischiano entrambi di morire (la madre vi perderà quasi tutta la famiglia).
Gipi, come suo solito, si mette a nudo raccontando le proprie vicende più intime senza alcun pudore, ma paradossalmente è proprio questo che gli permette di evitare il sentimentalismo e di costruire una narrazione sobria, emozionante: ci sono i racconti del padre, misti di realtà e immaginazione, ci sono i ricordi d'infanzia, gli scherzi, i litigi, l'allegria e la tragedia, la morte e l'affetto (la sequenza della cremazione è una delle più tenere che mi sia mai capitato di leggere).
I disegni, a differenza di altri testi, si mantengono semplici e lineari: poche linee, volti stilizzati, acquerelli leggeri e trasparenti. Insomma, quella semplicità così - apparentemente - facile, e invece così difficile da ottenere.
Forse "S." non è il libro migliore di Gipi (il migliore, secondo me, è "Appunti per una storia di guerra"), ma di sicuro è il più misurato, equilibrato, e insieme il più diretto.
Fra qualche settimana dovrebbe uscire per Coconino il nuovo libro, intitolato "Diario di fiume e altre storie". E io, come al solito, lo aspetto fedelmente. Degli amici ci si deve fidare.

lampi - 32


A sedici anni avrebbe dato un braccio per scopare la professoressa trentenne, ora che ne ha trenta gli fanno sangue solo le sedicenni.

giovedì 29 ottobre 2009

ashes to ashes

Poetry is just the evidence of life. If your life is burning well, poetry is just the ash.

("La poesia non è altro che il documento della vita. Se la tua vita brucia bene, la poesia non è altro che la cenere".)

Leonard Cohen

mercoledì 28 ottobre 2009

teorema


Data una frase che inizia con un nome collettivo ("i ragazzi di oggi", "i giovani", "quelli di sinistra", "i marocchini", "i fascisti", "quelli del paese accanto", "i musulmani", "gli ebrei", "i cattolici", "i testimoni di Geova", "quelli che ascoltano Tiziano Ferro", "gli intellettuali", "i magistrati", "i neocatecumeni", "i clandestini", "i meridionali", "i settentrionali", "i milanesi", "i bergamaschi", "i bergamaschi di sopra/di sotto", e via dicendo), ne consegue inevitabilmente che la seconda parte della frase sarà una solenne stronzata.

martedì 27 ottobre 2009

lampi - 31


- Ma come faceva a piacerti? Era uno squallido pallone gonfiato, cafone e ignorante come una capra.
- Era uno del popolo.

questa casa non è un albergo

Queste (le lucame, come le chiama la mia bambina) da un po' di tempo a questa parte hanno preso a frequentare lo spazio chiuso da vetrate, che separa il giardino dalla cucina. Ce le troviamo di sera o di notte, rintracciandole in fondo a lunghe scie di bava.
Mia moglie non le tocca perché le fanno schifo. Io le raccolgo con un fazzoletto, per non sporcarmi, e le lancio in giardino, nel buio, dove atterrano facendo il rumore di uno straccio bagnato.
Le prime volte uscivamo senza accendere la luce e le sentivamo, mollicce e scivolose, sotto le suole delle scarpe.

Questo tipetto, invece, si chiama Zoropsis spinimana.
Il corpo è lungo 2-3 centimetri, ma la circonferenza, con zampe e tutto, può arrivare anche a 5 o 6. Per quanto mi riguarda, è decisamente più di quanto sono disposto a tollerare in fatto di aracnidi. Per di più, pare che morda.
Il primo l'abbiamo trovato sul pianerottolo, morto, perché mia moglie aveva sparso insetticida contro gli ultimi scarafaggi ancora vivi, che cercano calore nelle case.
Poi l'altro giorno sono rientrato e ho fatto per tirare su il chiavistello che fissa la porta del garage al muro.
Proprio lì sopra ce n'era un altro. L'ho visto all'ultimo secondo, giusto in tempo per evitare un contatto che sarebbe stato tutt'altro che gradevole.
Lui si è rintanato nella scanalatura tra la porta e il muro, da dove l'ho scacciato a colpi di scopa, fino nel piazzale e poi sulla strada. Lì è rimasto fermo, guardandosi attorno con aria piuttosto perplessa.
Sul muro esterno, un suo cugino di dimensioni molto più accettabili era immobile, in attesa di chissà che.

Infine, sull'angolo superiore della porta aveva fatto la tela costui. Pholcus phalangioides, per i più curiosi.
Ho stuzzicato anche lui con la scopa e ho scoperto che era morto. Comunque l'ho spazzato via con tutta la tela.
Mi dispiace, ma questa casa non è un albergo, tantomeno per ragni.

lunedì 26 ottobre 2009

nostalgie


(ad Antonio, con nostalgia comune)

Sono nato nel 1975.
Ho cominciato a interessarmi alla politica tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90, quando i muri crollavano e il vecchio PCI celebrava la propria ecpirosi. Cominciava a nascere quella cosa informe, molliccia, ameboide, multitentacolata, che è la Sinistra italiana dello scorso quindicennio.
Non rimpiango il Partito, né tantomeno rimpiango il socialismo reale nelle sue varie metamorfosi (tutte più o meno mostruose).
Non rimpiango nemmeno chi si è colluso, in maniera più o meno consapevole, con gentaglia come Stalin, Mao o Fidel Castro.
Rimpiango la possibilità di pensare in maniera diversa.
Rimpiango un'alternativa.
Rimpiango una speranza, in mezzo ai bastioni dorati del consumismo che ormai ci si sono saldati intorno in maniera irreparabile.
Noi (pochi) siamo dentro, (tanti) altri sono fuori.
Il comunismo era la possibilità di pensarci tutti fuori.
Il consumismo è la voglia di chiuderci tutti dentro.

domenica 25 ottobre 2009

the austrian jesus

Bruno canta con Bono, Sting, Elton John, Chris Martin (assolutamente da non perdere!) from jcliff on Vimeo.

amarcord musicale 3 - test

Consideratelo un test. Si potrebbe chiamare: "quanta TV hai visto negli anni Ottanta?".
Beh, se pensate di averne vista tanta, ditemi se vi ricordate di questo:




Sì, esatto, è la sigla di "Te lo do io il Brasile" (1984), ossia Beppe Grillo quando era ancora un comico e non una figura indefinibile tra l'agitatore di piazze e il controinformatore. Programma che ricordo molto divertente (qui qualche spezzone). C'era stato anche "Te la do io l'America" (1981) e, se pensate di avere abbastanza pelo sullo stomaco per reggerlo, qui c'è Beppe Grillo che balla non solo con Heather Parisi, ma... travestito da Heather Parisi.
Comunque, per tornare al video musicale, i due che cantano sono Jair Rodriguez de Oliveira e suo figlio, omonimo, meglio noto come Jairzinho.
Jair senior oggi dovrebbe avere una settantina d'anni e credo che si sia ritirato dalle scene: ai suoi tempi fu un bravo cantante di samba e nel 1965 diresse, insieme all'immensa Elis Regina, "Fino da bossa", uno dei programmi storici della TV brasiliana, che lanciò moltissimi talenti della nuova musica popular brasileira.
Jair junior ha 34 anni ed è un cantautore di un certo successo (canta anche sua sorella, con il nome di Luciana Mello: nella musica brasiliana i mestieri si trasmettono ancora di padre in figlio).
Questo è Jairzinho oggi. Non male, devo dire.


sabato 24 ottobre 2009

recensioni in pillole 39 - "Due di due"

Andrea De Carlo, Due di due, Mondadori 1996 (prima ed. 1989) (385 pp.)

Mai letto nient'altro di De Carlo. Anzi, non avrei letto neanche questo se qualche sera fa, dopo una cena dalla suocera, nell'abbiocco causato dalla digestione di una sovrabbondante pasta al forno, non l'avessi intravisto su uno scaffale.
L'ho cominciato, in verità, senza troppa convinzione, dato che la vicenda è tra le più viste, lette e sentite: un'amicizia adolescenziale, l'amico perbene ma insoddisfatto che incontra l'amico ribelle. Scelte di vita, esistenze che si trovano e separano. Jack Frusciante cinque anni prima, verrebbe da dire (del resto, se non ricordo male Brizzi citava esplicitamente questo romanzo). O Le grand Meaulnes settantasei anni dopo, a seconda dei punti di vista.
La storia comincia a Milano alla fine degli anni Sessanta. Mario, il narratore, è un ragazzo di buona famiglia, iscritto al liceo classico ma oppresso dall'atmosfera sepolcrale della scuola e della società borghese. Fa amicizia con Guido, intelligente e inquieto, e con lui condivide letture, esperienze, ragazze, fino al coinvolgimento nel Sessantotto. Ma ben presto l'ansia libertaria delle rivolte giovanili viene strangolata dalla politica, l'immaginazione al potere è soppiantata dai diktat di partito, la passione e l'entusiasmo si trasformano in dogma e in violenza. Guido si avvicina all'anarchismo, poi insoddisfatto molla tutto, scuola politica ragazza famiglia, decide di partire. Lascia l'Italia per girare il mondo, inseguendo la propria irrequietezza.
Mario fa una scelta simile ma opposta: fugge da Milano, si rifugia in cima all'Appennino e lì si crea un'utopia agraria autosufficiente, trova l'amore, mette su famiglia, lontano da tutto ciò che aveva sempre odiato ma da cui non era mai riuscito a sganciarsi. Mario, insomma, è la terra, il desiderio di serenità e di radici; Guido è l'aria, l'incapacità di fermarsi, adattarsi, assumere una forma. “Può anche essere la storia delle due parti di una stessa persona”, ha affermato De Carlo.
Nel corso di vent'anni, i due si perderanno e ritroveranno molte volte, sempre diversi ma sempre fedeli l'uno all'altro, fino al finale che ovviamente non svelo.
De Carlo racconta la vicenda (in parte autobiografica) con uno stile piano e scorrevole, verrebbe da dire “medio”, nel senso che evita gli eccessivi scarti sia stilistici sia emotivi. Non evita, invece, gli scivoloni in certe facili mitologie anarcoidi-ecologiste-new age. Ma tutto sommato ho letto ben di peggio.

venerdì 23 ottobre 2009

lampi - 30


Realizzare un sogno erotico trasformandolo in incubo.

giovedì 22 ottobre 2009

appunti per un'anatomia del pregiudizio


A cena con parenti, tempo fa.
Mia affermazione: “Detesto questo luogo comune degli italiani brava gente. È odioso almeno quanto i pregiudizi negativi, tipo mafiosi, pizza mandolino eccetera”.
Risposta: “Non è vero che è un luogo comune. Io sono stato in Libia e tutti conservavano un buon ricordo di noi. Siamo davvero brava gente, non siamo mica i tedeschi”.

Risposta caratterizzata da una serie di salti logici illeciti.

Primo livello: “in Libia conservano un buon ricordo di noi”.
Osservazione fattuale, basata però su osservazioni occasionali: con quante persone ha parlato? chi erano? è sicuro fossero sincere? quale rappresentatività avevano rispetto a tutti i libici? eccetera.

Secondo livello: “gli Italiani si sono comportati bene durante l'occupazione della Libia ”.
Prima induzione illecita: passare dal ricordo (positivo) di alcune persone al fatto (presentato come oggettivo) che “gli Italiani (tutti) in Libia si sono comportati bene”. Affermazione che necessita di documentazioni oggettive ben più ampie e fondate.

Terzo livello: “gli Italiani sono brava gente”.
Seconda induzione illecita: anche ammesso che davvero gli Italiani in Libia si siano comportati bene, si compie una serie di generalizzazioni, affermando (implicitamente):
- che tutti gli italiani di allora erano come quegli italiani;
- che gli italiani di oggi sono come gli italiani di allora;
- e che, sostanzialmente, tutti gli italiani di ogni tempo e ogni luogo condividano le stesse proprietà.
In altre parole, si applicano le proprietà (indimostrate) di un campione ristretto di popolazione a un'intera popolazione, estesa peraltro nel tempo (figli, nipoti).
Questa generalizzazione è basata sull'assunzione, a sua volta indimostrata, dell'esistenza di un carattere nazionale, comune a tutti gli Italiani, che permane immutato nel tempo e nello spazio.

Quarto livello: “i tedeschi sono peggio di noi”.
Processo simile, basato anche questo sull'allargamento a tutti i tedeschi delle proprietà di un campione ristretto di popolazione tedesca (presumibilmente, i nazisti).

Tutto ciò rimane largamente implicito, com'è tipico dei luoghi comuni.
L'efficacia di una risposta del genere sta proprio nel fatto di basarsi su procedimenti mentali dati per scontati, presi come evidenti-di-per-sé: la generalizzazione, l'esperienza diretta (“io ho visto”).
Una confutazione basata su argomenti logici non ha la stessa efficacia.

mercoledì 21 ottobre 2009

consigli per gli acquisti

Qualche acquisto degli ultimi mesi, in ordine rigorosamente casuale.

Milton Nascimento / Lô Borges, "Clube da Esquina" (World Pacific 1972)

L'uscita di questo disco fu, per la musica brasiliana, l'equivalente di quel che fu "Sergeant Pepper's Lonely Heart Club Band" per il rock o "Kind of Blue" per il jazz.
Il "Clube da esquina" ("Club dell'angolo") era un gruppo di musicisti fondato nei primi anni '60 da Milton Nascimento insieme ai fratelli Marcio e Lô Borges. Operava a Belo Horizonte, capitale dello stato di Minas Gerais, e comprendeva personalità come Toninho Horta, Wagner Tiso, Flavio Venturini, che si muovevano fra tradizione brasiliana, pop, jazz, rock progressivo, con influenze anche dalla musica classica.
Insieme a tropicalisti (Caetano Veloso, Gilberto Gil, Tom Zé, Gal Costa, Maria Bethania), i musicisti del Clube da Esquina contribuirono a portare in Brasile una ventata di suoni internazionali, che la rivoluzionarono profondamente.


Chico Buarque, "Construção" (EmArcy 1971)

Uno dei capolavori di Chico. Il brano che dà il titolo all'album è una delle sue canzoni più famose: prende spunto da un fatto di cronaca (un muratore morto sul lavoro cadendo dall'impalcatura) e ci costruisce sopra un arrangiamento drammatico e un testo semplice e geniale, che si ripete circolarmente e gioca su sottili slittamenti sintattici e semantici. C'è anche "Samba de Orly", che Chico scrisse insieme a Toquinho e Vinicius De Moraes quando la dittatura brasiliana lo aveva costretto a due anni di esilio, e c'è "Minha Historia", che altro non è se non la traduzione portoghese di "Gesubambino (4 marzo '43)" di Lucio Dalla (Buarque passò molto tempo in Italia ed era molto legato al nostro paese).


Nina Simone, "Jazz as played in an exclusive side street club" (a.k.a. "Little Girl Blue") (Betlehem 1958 / rist. Charly 2002)

Quando si dice avere della personalità. A 25 anni, Nina Simone esordisce su disco, e c'è una sola parola per definirla: un'aliena. Non c'era niente di simile nel jazz dell'epoca, e non ci sarebbe stato nemmeno dopo. Questa donna prende i brani, li rivolta come un calzino, se li reinventa completamente, con una forza magnetica, irresistibile.
C'è anche il celeberrimo "My Baby Just Cares for Me", che però all'epoca passò quasi inosservato e diventò un successo trent'anni dopo, nel 1987, quando fu usato per uno spot pubblicitario della Chanel.


Ahmed Abdul-Malik, "Jazz Sahara" (Riverside 1958)

Un disco che ha fatto saltare per aria molte delle mie certezze circa la storia del jazz.
Ahmed Abdul-Malik (1927-1993) era un contrabbassista jazz, noto soprattutto per aver suonato con Thelonious Monk, ma dai suoi genitori, che erano di origine sudanese, aveva anche imparato la musica islamica tradizionale e lui stesso suonava l'oud, il liuto tipico della musica araba (è quello che si vede nella copertina). Nel 1958 realizzò questo disco in cui operò una geniale fusione di jazz (al sax c'è un sorprendente Johnny Griffin) e musica etnica, almeno 20 o 25 anni prima che simili esperimenti diventassero una moda.

martedì 20 ottobre 2009

a che servono i negri

E visto che ci siamo, ci metto anche questo, a corollario del post precedente.


... sono loro che sono negri


Vi sentivate in colpa se parlavate male degli immigrati? Temevate di essere razzisti?
Tranquillizzatevi: è solo natura. Lo diceva, sul "Giornale" qualche settimana fa, Ida Magli (che, a quanto pare, dovrebbe essere un'antropologa, e ripeto: antropologa; il povero Malinowski si starà rivoltando nella tomba).
Qui e qui trovate tutto l'inestimabile articolo. Riporto solo le perle più spassose, e mi limito a rammentare la vecchia battuta: "non siamo noi che siamo razzisti...".

Il razzismo al contrario adesso rischia di contagiare l’Italia
di Ida Magli (dal "Giornale" di giovedì 3 settembre 2009)
Si tengono tanti discorsi per attutire, nascondere, motivare nei modi più diversi le difficoltà di convivenza fra gli immigrati e i vari popoli d'Europa, ma, di fatto, viviamo malissimo; e uno dei fattori principali di questa sofferenza è il timore, ormai inculcato in noi dai nostri governanti fin dalla nascita, che il malessere sia dettato dal razzismo. Bene, tranquillizziamoci: il razzismo non c'entra per nulla. Stiamo male perché siamo costretti a vivere nello stesso territorio con popoli diversi da noi, e diversi prima di tutto fisicamente. Le diversità fisiche colpiscono subito e creano immediatamente un senso d'estraneità. È la Natura che fa sì che i parenti si somiglino fisicamente fra loro, i genitori con i figli, con i fratelli, e poi, gradualmente sempre meno: i nipoti, i cugini, fino alle somiglianze di gruppo…
L'uguaglianza, cui ci si riferisce oggi in continuazione, è un valore meta-fisico, di cui sono in possesso tutti gli esseri umani in quanto esseri umani, prescindendo da qualsiasi altro connotato, fisico, psichico, sessuale, etnico… ma si tratta di un valore filosofico, difficilissimo da comprendere e da realizzare, e che non ha nulla a che fare con uguaglianze concrete, di cui, per fortuna, non esistono esempi in natura. Non c'è foglia uguale ad altra foglia, come dice un vecchio e saggio adagio popolare.
L'estraneità fisica è la caratteristica maggiore che impedisce agli uomini di potersi «identificare» l'uno nell'altro, sentirsi psicologicamente «simili». Maschio e femmina lo sanno benissimo: è impossibile per una donna identificarsi in un maschio, e viceversa. Ma è ugualmente quasi impossibile per un «bianco» identificarsi in un «nero»: comprendere i sentimenti, le percezioni, i gusti, intuire il tipo di intelligenza, le reazioni, gli interessi. Se si aggiunge a questo dato di partenza, la differenza di lingua, di religione, di storia culturale, ci si rende conto che vivere sullo stesso territorio non significa vivere «insieme». Non si amano le stesse cose; non si desiderano le stesse cose; soprattutto non si lavora per lo stesso futuro, non si hanno le stesse mete.
[...]
Perché mai gli immigrati non dovrebbero avere come meta di poter governare, avere la maggioranza, poterci dominare? Sono uomini e come tali non possono desiderare altro che lasciare la propria impronta nella storia, far vincere la propria lingua, la propria religione, il proprio gruppo… Insomma, se non si cambia del tutto la rotta seguita fino ad oggi, noi non abbiamo futuro.
[...]
Questo è il razzismo, questa è l'eredità genetica, questa è la peggiore delle ingiustizie. L'Unione Europea è in crisi perché era fin dal principio un'idea irrealizzabile. Ancor più irrealizzabile è l'idea dell'Unione Mondiale. Cominciamo a lavorare per sopravvivere come italiani.

lunedì 19 ottobre 2009

recensioni in pillole 38 - "Vineland"

Thomas Pynchon, Vineland, Rizzoli 2000 (446 pp., € 8,26)

Qualche tempo fa mi era venuta la curiosità di leggere Pynchon. Avevo raccolto un po' di informazioni in giro e mi era sembrato di capire che “Vineland” (1990) fosse tra le sue cose più accessibili. L'avevo comprato e – manco a dirlo – era rimasto a prendere polvere su uno scaffale. (E se siete curiosi di sapere perché poi l'ho letto, e perché proprio ora, sappiate che non ne ho la minima idea).
Il libro si apre nel 1984 (e non è certo un caso) , nell'immaginaria contea di Vineland, California settentrionale. Il primo a entrare in scena è Zoyd Wheeler, un ex-hippie divorziato e con figlia a carico: una specie di Grande Lebowski, svaccato e imbolsito reduce degli anni Sessanta. Un giorno, la sua placida e divagante esistenza da fricchettone-fuori-tempo-massimo viene bruscamente interrotta da una vera e propria invasione di agenti dell'FBI che lo costringono a una precipitosa fuga. Origine di tutto è la sua ex-moglie Frenesi, svanita nel nulla anni prima, che man mano si scoprirà essere al centro di un enorme inghippo che coinvolge agenti segreti stronzissimi e fascistissimi, poliziotti dell'antidroga impazziti per la troppa TV, sette segrete di donne ninja, discografici in trip da acido, Repubbliche del Rock'n'Roll, confraternite di svitati dediti al culto della morte, guaritori karmici giapponesi, cellule di contestatori dell'estrema sinistra, equivoche ditte di rimozione autoveicoli, bikers mistici vestiti da suore, campi per la rieducazione dei sovversivi e via dicendo.
Pynchon si diverte ad accumulare, in modo grottescamente esponenziale, tutti gli elementi del thriller di serie B. La trama è un labirinto di andirivieni temporali, digressioni, flashback, inzeppata di citazioni tratte dalla cultura pop, con una miriade di personaggi – uno più paradossale dell'altro – che appaiono e scompaiono nel nulla, senza ragione apparente.
Ma soprattutto, il romanzo è un ritratto psichedelico dell'America anni Ottanta: una società in frantumi, ipnotizzata dalla televisione, rincoglionita dal consumismo e dalla comunicazione di massa. Gli anni Sessanta, ci dice Pynchon con tragico divertimento, hanno fallito su tutta la linea: prima si sono impaludati nel grigiore nixoniano e poi si sono lasciati fagocitare dagli sbrilluccichii reaganiani. I rivoluzionari hanno messo su pancia, hanno perso i capelli e si sono trasformati in macchiette. O, peggio, si sono venduti, e sono diventati più borghesi dei borghesi.

* * *

(da Vineland, pp. 363-364)

“Questi agenti federali,” stava adesso dicendo Mucho Maas a Zoyd “se poco poco assomigliano ai rinologi, o terapeuti del naso, non te li scaccoli più di dosso finché campi. Credevo che tu non spacciassi più.”
“Lo credevo anch'io. Se non che, la settimana scorsa, che succede? Finalmente lui cerca di incastrarmi.” E Zoyd raccontò a Mucho la sua breve ma educativa detenzione in un carcere federale.

Mucho batté le ciglia, compassionevolmente, mesto. “Be', è acqua passata ormai, mi sa. Siamo entrati in una nuova era adesso. Questa è l'età di Nixon, poi verrà l'età di Reagan...”

“Il vecchio Raygun? Ma va' là! Non lo faranno mai presidente.”

“Vacci cauto, qui, Zoyd, per favore. Ché, tra non molto, vedrai, proibiranno tutto, non soltanto gli stupefacenti, ma anche la birra, le sigarette, lo zucchero, il sale, i grassi, e via discorrendo, tutto quello insomma che possa far minimamente piacere a uno dei tuoi sensi, poiché hanno bisogno di tener tutto sotto controllo. Vedrai, vedrai.”

“Ci sarà il nucleo antipasticcini?”

“Sì, e la squadra antiprofumi. L'antitele. L'antimusica. Un reparto di polizia specializzato per controllare che si cachi merda buona, regolare. Ti conviene rinunciare a tutto adesso, così parti avvantaggiato.”

“Io per me vorrei tanto che fossero, invece, ancora i tempi di una volta. Quando tu eri il Conte Drugula. Ti ricordi, che streppate? E che acido! Ti ricordi quella volta a Laguna? Dio mio, lo sapevo. Lo sapevo...”

Si scambiarono un'occhiata. “Anch'io. Ero convinto che non sarei morto mai. Ah! Sfido che il Potere abbia preso paura. Come farebbe infatti a controllare una popolazione che sa che non morirà mai? Perché è sempre stata questa, la loro briscola: pensare di avere il potere di vita o di morte. Ma l'LSD ci donava una visione ai raggi X della realtà. Per forza, quindi, dovevano togliercelo.”
“Sì, ma non ci possono mica togliere quello che è stato, quello che abbiamo scoperto.”
“Un momento. Ce lo fanno però dimenticare. Ci danno troppe cose da elaborare, sì da riempire ogni minuto, per distrarci, alienarci, estraniarci, è a questo che serve la Tele, e, anche se mi duole dirlo, è a questo che sta finendo per servire il rock and roll... semplicemente un modo come un altro per incatenare la nostra attenzione, sicché quella bella certezza che avevamo conquistato comincia ormai a sbiadire e, tra non molto, riusciranno di nuovo a convincerci che tutti dobbiamo morire davvero. E ci inculeranno di nuovo.” Era così che la gente era solita parlare.

“Io non dimenticherò mai,” giurò Zoyd “vadano a farsi fottere. Finché è durata, ci siamo divertiti un mondo.”

“E non ce l'hanno mai perdonata.” Mucho andò al giradischi e mise su
The Best of Sam Cooke. Quindi stettero entrambi ad ascoltare il sermone, un sermone che conoscevano e da cui si sentivano confortati, sebbene fuori si estendesse la terra desolata, senza lampioni, si aggirasse invisibile il redde rationem, e l'America verde della loro gioventù si stesse trasformando in uno stato di crumiri e di polizia.

domenica 18 ottobre 2009

le tettine della dea


Dalla pietra

Dal candore perfetto della pura
e ilare pietra nevicata uscì
una ragazza bruna, lentamente
inventandosi il vento per potersi
scuotere i brevi capelli per lieve
ammirazione e gioco; e discendeva
alla festosità cupa ed ironica
del violaceo mare, infinitamente
imbarazzata e al tempo stesso fiera
per la perfetta nudità del cielo
e le tettine appena ricoperte
dalla striscia blu. Sempre più correndo,
rapida scese la spiaggia fino
alle onde irrigidite e decorate
dalle alghe serpentine e da meduse
raffinate, le sorse accanto l'ala
di una barchetta azzurra, la salì
agile, mentre dal largo erano arrivati
gonfi venti arrossati ed anelanti,
e trionfanti e buffi la portarono
fino al bar di fiori e di cristalli, dove
il burbero il padre la presenterà
agli altri dei, e la inciterà a danzare
tutta la notte e, dopo, con l'Aurora
dalle dita rosate.

Torino, 12 settembre 2003

Giorgio Barberi Squarotti
da:
Gli affanni, gli agi e la speranza (L'arcolaio, 2009)

sabato 17 ottobre 2009

la canzone popolare

Quando, nel 1992, uscì “Canzoni d'amore”, io ero allo zenith della mia infatuazione degregoriana (nel senso che da allora in poi cominciò a decrescere). Poco dopo l'uscita del disco, De Gregori intervenne in un programma radiofonico dove chiacchierava con il presentatore e rispondeva alle telefonate degli ascoltatori.
Durante una di queste telefonate, De Gregori chiese se poteva fare lui una domanda all'ascoltatore, e la domanda fu: “Secondo te, quelle di questo disco sono canzoni popolari?”. L'ascoltatore, chiaramente preso alla sprovvista, gli chiese che cosa intendesse con “canzoni popolari”, e De Gregori rispose “come quelle che cantavano una volta le mondine”, e citò anche La canzone popolare di Ivano Fossati, che credo fosse uscita poco prima. (L'ascoltatore, poi, cominciò a balbettare in preda all'imbarazzo, e De Gregori glissò educatamente sulla domanda).

L'episodio mi è tornato in mente durante la discussione relativa a questo post, dove presentavo qualche video di un tamarro di nome Gigione, che gira piazze e tv locali proponendo canzonacce a base di doppi sensi più o meno pecorecci, balletti collettivi e altre simili pacchianate.
L'argomento della discussione non era tanto la qualità della musica (ovviamente escrementizia), bensì se la musica di Gigione si potesse definire “musica popolare”.
Il mio interlocutore sosteneva di sì, in quanto “attinge dai sentimenti, dagli umori e dai costumi degli strati più bassi e meno sviluppati economicamente e culturalmente della popolazione”. Gigione, insomma, aderirebbe autenticamente a un “sostrato popolare oramai ben formato, definito e consolidato”.
Io invece sostenevo di no, perché per come la vedo io non si tratta affatto di un “sostrato popolare”, bensì di sottocultura televisiva di quart'ordine. La cultura “popolare” (o “contadina”, se si preferisce: e facevo l'esempio di Matteo Salvatore) nasceva dal basso, e spesso addirittura in opposizione alla cultura "alta", mentre la musica di Gigione rappresenta, secondo me, nient'altro che l'adesione supina a modelli culturali imposti dall'alto. Tale adesione può essere anche “autentica”, ossia sincera, sta di fatto che sono quei modelli ad essere falsi e artefatti.

In altri termini, per me la musica "popolare", o "folklorica" che dir si voglia, smette di esistere nel momento in cui smette di esistere un'entità chiamata "popolo", distinta culturalmente, altra rispetto alla cultura "alta". E questo è esattamente quel che è successo negli ultimi 50-60 anni, e che Pasolini aveva puntualmente predetto.
Intendiamoci: che siano scomparse certe differenze sociali, economiche e culturali mi sembra una cosa sacrosanta e giustissima, ma il problema è che nella società occidentale contemporanea il livellamento sociale e culturale provocato dai mezzi di comunicazione di massa ha creato un unico continuum culturale, che va da Briatore o Berlusconi fino all'ultima delle casalinghe. Non esiste più una cultura "popolare" distinta da quella dominante, ma solo diverse gradazioni di potere economico e mediatico all'interno di un'unica, pervasiva melassa.
La musica “popolare” si è trasformata in pop music, prodotto di un'industria culturale che ormai pervade e domina le produzioni musicali, e di questo la musica di Gigione, con i suoi scimmiottamenti pseudo-televisivi, è un esempio eclatante (e volendo potremmo parlare anche della povera taranta salentina, ormai ridotta a fenomeno da baraccone: non a caso tempo fa dicevo, scherzando ma non tanto, che dovrebbe essere proibito ballare la taranta a chi non abbia almeno 60 anni e/o non presenti una congrua dose di calli da zappa sui palmi delle mani).
Oppure, la musica “popolare” viene recuperata in maniera colta e consapevole, magari artisticamente riuscitissima, ma ormai non più “popolare”.

Insomma, questo è quanto. Chi vuol dire la sua è benvenuto.

venerdì 16 ottobre 2009

tre poesie di antonio bassano


Da qui (ci trovate anche qualche notizia sull'autore).


Le lac du Bourget


Gli sguardi ammainati sul versante
fermi nel proposito di decomporsi
in umori minerali, in memoria complice
tra la spina e l’odore e la roccia nuda,
rapida allo schianto, impastata alla terra.

A folate s’immerge il respiro nel profondo
sotto il peso dell’acqua e guizza sul lago
che si fa viso un poco sgranato nel mezzo.
-defense de plonger- il pontile in legno
avanza qualche passo oltre la riva.
Quasi mare per il vivo dell’occhio,
un’immersione di luce a tagliare via le vele
.
Limpida sarà la notte dall’altra parte,
con una luna nodosa nel gomito del golfo.

***

Talvolta sì, ti ho spiato a lungo dopo l’amore
e fingendo di abbandonarmi ai sogni intanto rubavo
quello che di te non conosci, quel movimento di spalle
che non sai di avere nel sonno, che si accorda al respiro
lungo gli snodi del corpo giù fino ai fianchi.

Sempre più spesso ora ti addormenti presso di me
tirando via con un gesto le anse di polvere dalle tende,
dal legno sverniciato degli infissi, riconoscendo al tatto
o per odore questa camera che è mia solo per abitudine,
dove ti perdo e ti ritrovo seguendo le orbite degli umori,
sbagliando la conta dei passi che ci sono dalla lampada al letto.

Percorro lo spazio come una crepa, dividendomi in una o due,
in mille piccole radici che scavano con furia alle tempie,
nel tentativo di risalire su di te, grumo di rimmel,
temendo di non farcela in salita, nei salti a vuoto della catena.

***

Dovrei alzarmi presto senza far tardi la notte
come se il sonno mi facesse davvero paura
finendo per chiedermi se dormi, se hai potuto dormire
nei minuti in cui pensavo al frigorifero che ronza,
a qualche scontrino vecchio di mesi e mesi
ma tenuto ancora accartocciato nei pantaloni.

Mi ritrovo infine in questa deriva ormai familiare
a coccolare il cane e la gatta che borbotta in amore,
risvegliandomi poco a poco in me stesso o in altri
con storie da raccontarti la sera, tutte d'un fiato,
finché il respiro non mi sorprenda come un vizio disumano.

giovedì 15 ottobre 2009

ipazia e la censura



A Cannes è stato presentato un film di Alejandro Amenabar intitolato "Agora" (qui si può vedere qualche scena).
Racconta la vita di Ipazia di Alessandria, una delle prime donne della storia ad occuparsi di scienza (matematica, astronomia, fisica) e di filosofia. Visse tra la fine del IV e l'inizio del V secolo d.C. e fu uccisa nel 415 da fanatici cristiani, pare istigati da Cirillo, vescovo di Alessandria. L'assassinio fu particolarmente brutale: mentre passava per strada su un carro, venne trascinata in strada dalla folla, spogliata e lapidata sul sagrato di una chiesa, il suo corpo fu mutilato, smembrato e infine bruciato.
Ipazia era pagana e rifiutò di convertirsi al cristianesimo, e anzi continuò a insegnare sfidando l'interdetto delle autorità cristiane (siamo subito dopo gli Editti di Teodosio, che nel 391-392 avevano proclamato il cristianesimo religione ufficiale dell'impero e avevano dichiarato illegali tutte le forme di paganesimo). L'omicidio, comunque, fu dettato anche dalle rivalità politiche tra il prefetto imperiale Oreste (amico di Ipazia) e il vescovo Cirillo.
Quella di Ipazia è una figura molto interessante: era ritenuta una delle menti più brillanti della sua epoca e pare abbia inventato anche parecchi strumenti scientifici, tra cui l'astrolabio. Ebbe come allievo Sinesio di Cirene, che più tardi si convertì al cristianesimo e divenne uno dei più importanti scrittori cristiani del IV-V secolo. Oltre a interessarsi di matematica, Ipazia fu anche tra i principali esponenti del tardo neoplatonismo pagano. Purtroppo, tutte le sue opere sono andate perdute.

Il film, dicevo, è stato stato presentato a Cannes e sembra abbia riscosso un buon successo.
Ultimamente si è scatenata una polemica perché pare che in Italia vogliano censurarlo o non distribuirlo proprio (ne parla La Stampa del 7 ottobre, e pare ci sia anche un gruppo di FaceBook che se ne sta occupando).
Ora, io non so se veramente si stia pensando di boicottare il film, e non ho idea del suo valore. Dal trailer, sembrerebbe un kolossal, realizzato con gran dispiego di mezzi e di effetti speciali. Da quel che ho capito, Amenabar - del quale mi era piaciuto molto "The Others" (2001), una ghost story con protagonista Nicole Kidman - lo ha pensato come un apologo contro il fanatismo, di qualunque marca religiosa o politica o filosofica (anche se Ipazia è stata spesso rappresentata come una martire della tolleranza pagana, oppressa dall'assolutismo cristiano).
Spero solo che il film si possa vedere e che se ne possa parlare. Il tema mi interessa molto, e ho sempre avuto un debole per le età "tarde": l'ellenismo, la tarda latinità, l'impero bizantino, il tardo Medioevo...
E poi, la protagonista è Rachel Weisz, e per me questo è già un bel titolo di merito...

P.S.: la vita di Ipazia è raccontata anche in un testo teatrale di Mario Luzi (scrittore cattolicissimo, per inciso), intitolato "Il libro di Ipazia" (1974).

estetica dell'orrido

Credevo di aver già esplorato tutte le frontiere del trash, finché un giorno, su una TV locale, non ho visto comparire questo.
Si prega di notare la prestanza fisica dei due ballerini maschi, nonché il ragguardevole numero di pieghe adipose delle ballerine in seconda fila.



Nauseati? Ebbene sappiate che quest'uomo, nomato "Gigione", ha fatto ben di peggio. Questo, per esempio.



Siamo arrivati al fondo del fondo? Ebbene no, perché Gigione (al secolo Luigi Ciavarola, oriundo di Boscoreale), ha composto, udite udite, un album di canzoni dedicate ai santi. Fra le varie perle (San Francesco d'Assisi, Santa Chiara e via dicendo), poteva mancare Padre Pio? No, ovviamente.
Cantano i due pargoli di Gigione (sì, quest'essere si è anche riprodotto), noti con i nomi d'arte di Jò Donatello (lui) e Menayt (lei).



Curiosi di vedere Jò Donatello? Eccolo, che insieme al paparino inneggia a papa Woytila.



E infine, direttamente dal greatest hits di Jò Donatello, "Il gelatino". Il titolo, ovviamente, è un raffinatissimo gioco di parole, che si chiarisce all'ascolto del ritornello ("Ti piace il gelatino? Poi la fragolina la devi dare a me"). La tettona sullo sfondo è la sorellina Menayt.
Buon vomito a tutti.


mercoledì 14 ottobre 2009

lampi - 29


Paleografia dei gesti. In chiesa non ci va, da decenni, ma il segno della croce se lo fa sempre, prima di ogni esame. E si sente subito il petto più leggero.

martedì 13 ottobre 2009

in difesa di un cliente indisciplinato

C'è ragione di notare l'indocile licenza di quel membro, che si ingerisce tanto inopportunamente quando non sappiamo che farne, e tanto inopportunamente viene meno quando ne abbiamo più bisogno, e che combatte così imperiosamente di autorità con la nostra volontà, respingendo con tanta fierezza e ostinazione le nostre sollecitazioni e mentali e manuali. Tuttavia, poiché si rimprovera aspramente la sua ribellione e si fa di essa una prova per ottenere la sua condanna, se esso mi avesse pagato per difendere la sua causa, forse farei ricadere sulle altre nostre membra, sue compagne, il sospetto di essere andate a metter su contro di lui questa vertenza fittizia per invidia bella e buona dell'importanza e dolcezza del suo uso, e di aver, per complotto, armato tutti contro di lui, malignamente addossando a lui solo la loro colpa comune. Vorrei infatti che vi domandaste se ci sia una sola parte del nostro corpo che non rifiuti spesso la sua opera alla nostra volontà , e che spesso non la compia contro la nostra volontà. Ciascuna di esse ha passioni proprie che la risvegliano e l'addormentano senza il nostro permesso. Quante volte espressioni incontrollabili del nostro viso rivelano i pensieri che tenevamo segreti e ci tradiscono davanti agli altri. Quella stessa causa che muove quel membro, a nostra insaputa muove anche il cuore, i polmoni e il polso; e infatti la vista d'un oggetto gradevole diffonde imprecettibilmente in noi la fiamma di un'emozione febbrile. Vi sono forse soltanto quei muscoli e quelle vene che si rizzano e abbassano senza il consenso, non solo della nostra volontà, ma anche del nostro pensiero? Noi non comandiamo certo ai nostri capeli di rizzarsi e alla nostra pelle di fremere di desiderio o di timore. La mano va spesso dove noi non la mandiamo. La lingua si paralizza e la voce s'arresta a piacer suo. Proprio quando, non avendo nulla da mangiare, glielo proibiremmo volentieri, la voglia di mangiare e di bere non ristà dall'agitare le parti che le sono soggette, né più né meno di quell'altra voglia; e allo stesso modo ci abbandona, fuori di proposito, quando le piace. Gli organi che servono a scaricare il ventre hanno le loro propire dilatazioni e contrazioni, oltre e contro il nostro volere, come quegli altri destinati a scaricare i nostri reni. E quel fatto che sant'Agostino cita per comprovare l'onnipotenza della nostra volotnà, cioè di aver visto qualcuno che comandava al suo deretano quanti peti voleva, e che Vives, suo glossatore, rafforza con un altro esempio del tempo suo, di peti armonizzati secondo il tono dei versi che si recitavano, non garantisce affatto una obbedienza più assoluta di quella parte del corpo, perché in generale esso è uno dei più indiscreti e tumultuosi. Si aggiunga che ne conosco uno tanto turbolento e ribelle, che sono quarant'anni che tiene il suo padrone a scoreggiare con una lena e con un impegno costante e ininterrotto, e così lo porta alla morte.
Ma la nostra volontà, per i cui diritti avanziamo questo rimprovero, con quanta più verosimiglianza la possiamo tacciare di ribellione e sedizione per la sua sregolatezza e disobbedienza! Vuole essa sempre ciò che noi vorremmo che volesse? Non vuole spesso quello che le proibiamo di volere; e con nostro danno manifesto? Si lascia forse condurre alle conclusioni della nostra ragione? Infine, a difesa del mio signor cliente, dirò: ci si compiaccia di considerare come in questa faccenda, pur essendo la sua causa inseparabilmente e solidalmente congiunta a un complice, ci si rivolga tuttavia a lui solo, e con argomenti e accuse tali che, vista la condizione delle parti, non possono in alcun modo riferirsi né concernere il detto complice. Pertanto si vede l'animosità e l'illegalità manifesta degli accusatori. Comunque sia gli avvocati e i giudici hanno un bel litigare e sentenziare, la natura continuerà tuttavia il suo corso; e avrebbe fatto cosa assennata se avesse dotato questo membro, autore della sola opera immortale dei mortali, di qualche particolare privilegio. Per ciò la generazione è per Socrate azione divina; e amore, desiderio d'immortalità e demone immortale lui stesso.
(Montaigne, Saggi, I, 21)

(nell'immagine: una scena dal Decameron di Pasolini)

lunedì 12 ottobre 2009

dire, non dire, tradire


Ne uccide più la lingua che la spada. O, tradotto, si può fare molto più male con un articolo di giornale subdolo e ipocrita, che con cento ronde padane.
Dal blog di Giulio Mozzi, un'analisi di come "Il Mattino di Padova" ha trattato la vicenda dello sgombero di un campo nomadi (autorizzato e in regola):
Gli intoccabili e il blitz.

(nell'immagine: Sandro Botticelli, La calunnia, 1496)

domenica 11 ottobre 2009

lampi - 28


Sveglio di soprassalto, ancora con un piede a metà nel sogno, sfiora il corpo che dorme accanto a lui, fissa il buio compatto, e prova un attimo di autentico, puro terrore, non riuscendo assolutamente, per quanti sforzi faccia, a ricordare chi delle due ha, infine, sposato.

sabato 10 ottobre 2009

segnalazione fumettistica

Hugo Pratt / Héctor Oesterheld, "Sgt. Kirk. Rinnegato!", Rizzoli 2009 (192 pp., 22 €)

Notizia sentita poco fa al TG1, nella rubrica di Vincenzo Mollica Do Re Ciak Gulp (e che per sentir parlare di Hugo Pratt in TV si debba aspettare quella vecchia puttana di Mollica, la dice lunga sul livello della nostra informazione e sulla considerazione di cui gode il fumetto).
La Rizzoli ha pubblicato il primo volume (di 5, se ho capito bene) con la ristampa delle storie del Sergente Kirk, uno dei primi grandi personaggi di Hugo Pratt.
Per chi non lo conosce, basti dire che ai testi c'è l'immenso Héctor Oesterheld, quello de "L'Eternauta". Le storie risalgono agli anni Cinquanta, quando Pratt viveva in Argentina. Il protagonista è un militare che rifiuta di combattere gli indiani e diventa loro fratello di sangue (tematica per niente scontata, in quel periodo).
Qui qualche informazione.

lampi - 27


Dopo aver cliccato "Elimina", e aver cancellato dall'hard-disk tutta la cartella delle immagini porno, si sente per qualche minuto una persona migliore. Respira a fondo per assaporare la sensazione.

venerdì 9 ottobre 2009

per una carta dei diritti del lettore

Promemoria

Non prendere mai troppo sul serio le dichiarazioni degli artisti circa le proprie creazioni. Spesso il rapporto tra creatore e creatura è tormentato quanto quello tra padre e figlio; amore e odio si intrecciano in trame indecifrabili.
Ma le opere non appartengono a chi le ha scritte, bensì al lettore/ascoltatore/spettatore ecc. ecc., il quale ha il diritto di farne quel che meglio crede.
O, come diceva Troisi nel "Postino", "le poesie non sono di chi le scrive, sono di chi gli servono"

giovedì 8 ottobre 2009

realtà e finzione

Moretti, devo confessarlo, mi sta antipatico. Però ammetto che qui è inquietante.
Quando la finzione si sovrappone alla reltà, non è mai un buon segno.
Il finale, con la gente che applaude il politico e fischia i magistrati, mi mette davvero paura.

se ne impara ogni giorno una nuova


da Wikipedia:

Negli Stati Uniti uno dei maggiori oppositori della masturbazione fu il medico John Harvey Kellogg (l'inventore dei corn flakes) che sostenne l'alimentazione a base di fibre come lotta all'autoerotismo da lui definito "crimine abominevole".

mercoledì 7 ottobre 2009

questo si chiama parlar chiaro


"La legge è uguale per tutti, ma non per forza lo è la sua applicazione."

(Niccolò Ghedini, da qui)

brave persone


"Mi sembrava una buona persona, come tutti gli altri. Soltanto che a volte era un po' strano. Sembrava un tipo inoffensivo".

(dichiarazione di un vicino di casa di Ed Gein)

martedì 6 ottobre 2009

quando ancora non portava il parrucchino...

...Lucio Dalla era un mezzo genio.
Dedicato a tutti quelli che non lo sanno.


http://www.youtube.com/watch?v=KkqirmyTXNU


Anidride solforosa
(1975)

testo di Roberto Roversi, musica di Lucio Dalla

Sono andata via
perché rimanere sempre a Faenza non è che mi interessasse troppo.
Non puoi sempre rifugiarti nella foresta e sulla spiaggia del mare:
l'ombra si scioglie e ti fa disperare.
Ero una ragazza un po' nervosa ma intelligente,
però di calcio non capivo niente.
Per questo non mi sono sposata, va'.
Ma io guardavo il mondo,
piangendo perché ero contenta,
perché ero contenta,
perché ero contenta.

Ieri la città si vedeva a malapena;
oggi la città si vede tutta intera.
Ieri il mare si scuoteva da fare pena;
oggi il mare ha la barba tutta nera.
Gli elaboratori hanno per sorte
di aiutare l'uomo a vincere la morte.
Infatti se il vento dell'inquinamento
tende a salire, l'aiutano a morire.
E aiutano anche l'amministrazione
e il patrimonio forestale in distruzione.

Verrò, verrò: è fuori discussione,
perché qualcosa deve pur accadere.
In giro c'è molta rivoluzione;
tu sbagli sempre tutto, e soprattutto non mi dai attenzione.
Non vedi tu, non vedi come il mondo sembra brutto,
però posso incontrarti, posso vederti,
posso rivederti in un giorno della settimana,
anche se abiti in una città lontana?
L'uomo, l'uomo si serve degli elaboratori, per migliorare il mondo in cui si vive!
Percentuali di particelle solide presenti nell'atmosfera.
Tutti i dati raccolti sono trasmessi all'elaboratore.

Sapremo quante volte fare l'amore,
o quante volte i fiumi, in Italia, traboccano.
Ma i cittadini di Philadelphia
vivono sotto un cielo pulito.
Io ti segno a dito;
tu segna pure me: sono felice.

lunedì 5 ottobre 2009

recensioni in pillole 37 - "Io sono Geronimo"

Io sono Geronimo. Autobiografia, Theoria 1994 (169 pp.)

Go-ya-hkla, meglio noto come Geronimo, nacque nel 1829 nel territorio dell'attuale New Mexico. Apparteneva ai Bedonkhoe, una banda di Apache che faceva parte della tribù dei Chiricahua.
Fino al 1858 visse in pace (per quanto poteva viverlo un Apache), poi dei soldati messicani attaccarono il suo accampamento e gli massacrarono tutta la famiglia. Geronimo giurò di vendicarsi e passò i successivi trent'anni a combattere prima i messicani, poi gli americani. Negli anni Ottanta dell'Ottocento, quando quasi tutte le altre tribù indiane erano state ormai sterminate o rinchiuse nelle riserve, lui e i suoi Chiricahuas ancora resistevano, asserragliati sulle montagne dell'Arizona. La perfetta conoscenza del territorio e l'esperienza nelle tecniche di guerriglia gli permisero di beffare per anni forze preponderanti e meglio armate.
Si arrese il 4 settembre 1886, stremato ma imbattuto, insieme alle poche decine di uomini che gli erano rimasti. Venne spedito prima in Florida, poi in Alabama, infine in Oklahoma. Divenne una leggenda vivente e partecipò persino alla Fiera Mondiale di St. Louis, nel 1904. In vecchiaia si convertì al cristianesimo (almeno formalmente), ma non smise di dedicarsi alle sue passioni: l'alcool, il tabacco e il gioco d'azzardo.
Nel 1905, all'età di 76 anni, accettò di narrare la sua vita a un ricercatore di nome S. M. Barrett, inviato da Roosevelt in persona. Questo libro contiene il suo racconto, ed è la dimostrazione che lo spirito del vecchio capo era ancora indomito. Geronimo si rifiutò di rispondere a qualunque domanda e raccontò quel che voleva, come voleva. Descrisse gli Apache per quello che erano: guerrieri spietati, che vivevano di rapine e razzie, per i quali uccidere quanti più nemici possibile era cosa giusta e onorevole. Interessante anche l'atteggiamento di Barrett il quale, pur tra mille note cautelative (all'epoca era ancora scontato che gli indiani fossero i cattivi e i bianchi i buoni), esprime una chiara simpatia per Geronimo e riporta tutti i suoi giudizi sui bianchi, anche i più duri e critici.
Nel febbraio 1909, a 79 anni, Geronimo si prese una sbronza e rimase all'aperto per tutta la notte. Fu ricoverato per una polmonite, che se lo portò via in pochi giorni. La sua autobiografia è la testimonianza – orgogliosa ma rassegnata – di un sopravvissuto, nato quando ancora gli Apache vivevano liberi e morto quando ormai di quel mondo non rimaneva che un pallido ricordo.

ride bene chi ride ultimo

domenica 4 ottobre 2009

si dia una risposta


Una donna di Messina sta raccontando a una giornalista l'alluvione.
"Mi sono affacciata e ho visto una vera e propria muraglia d'acqua che veniva giù e investiva casa mia".
La giornalista: "E... ha avuto paura?".
Lo sguardo della donna è stato qualcosa di imperdibile.

Alex Raymond (1909-1956)

Il blog di Tito Faraci rammenta giustamente che due giorni fa cadeva il centenario della nascita di un genio: Alex Raymond (nato il 2 ottobre 1909 e morto in un incidente stradale il 6 settembre 1956, a soli 47 anni).
Tito sottolinea anche che il centenario è passato stranamente sotto silenzio: eppure si tratta di un genio assoluto. E' stato definito "il Michelangelo dei fumetti", e la definizione non è affatto esagerata.
Appartiene a una generazione di autori (lui, Milton Caniff, Hal Foster, Burne Hogarth, Lee Falk, Jack Kirby, Will Eisner...) che hanno inventato, quasi dal nulla, le regole base della grammatica fumettistica. Anzi, Raymond quelle regole le ha anche trascese, smontate. In pratica, ha già detto tutto lui, e gli altri non hanno fatto altro che continuare il lavoro.
Con "Flash Gordon" ha sperimentato segni, inquadrature, stili narrativi, con una fantasia e una maestria che rimangono tuttora insuperate (qui trovate un bel saggio sulla sua arte, firmato dal semiologo Daniele Barbieri). Con "Rip Kirby", ha semplificato il suo stile e ha creato una perfetta detective story calata nella realtà contemporanea (qui qualche esempio del modo in cui rielaborava fotografie per trasformarle in vignette).
E infine, se mi è concessa una notarella personale, credo che abbia disegnato alcune delle donne più sensuali della storia del fumetto (altro che le Barbie fatte con lo stampino di Milo Manara...).

la pavana del capitano



Strano personaggio, Tobias Hume.
Si firmava "Captaine Hume", perché di professione era stato un militare, ma della sua vita si sa poco o nulla, a parte la data della morte, il 16 aprile 1645. La nascita è incerta, ma l'anno dovrebbe essere, forse, il 1569, il che farebbe 76 anni, una bella età per l'epoca. E' probabile che abbia servito come mercenario nell'esercito russo e in quello svedese. Non ci è arrivato nessun suo ritratto.
Comunque, è noto soprattutto per averci lasciato due libri di composizioni per viola da gamba, intitolati "Musicall Humors" (1605) e "Captain Humes Poeticall Musicke" (1607). Nell'introduzione ai "Musicall Humors" scrive: "I Doe not studie Eloquence, or profess Musicke, although I doe love Sence, and affect Harmony: my Profession being, as my Education hath beene, Armes, the onely effeminate part of me, hath beene Musicke".
Doveva essere un uomo di spirito, visti i titoli di certe sue composizioni; una per tutte, "An Invention for Two to Play upone one Viole". Per eseguirla, due musicisti devono sedere l'uno in grembo all'altro e suonare la stessa viola con due archetti. Si sa che difendeva il valore della viola da gamba su quello del liuto, strumento più aristocratico, e che per questo venne in polemica con il grande liutista John Dowland, il quale criticò aspramente le sue opere. Pare anche che sia stato il primo ad avere l'idea di usare l'archetto per percuotere le corde e creare così l'effetto oggi detto "col legno".
Fu sicuramente un eccentrico, ed ebbe poca fortuna dato che morì in miseria. Ma la sua produzione spicca per originalità e, in una musica già di per sé piena di pathos com'è quella del XVII secolo, anche per un profondo, dolente lirismo.
Il brano nel link si chiama "Captaine Humes Pauin" ("Pavana del Capitano Humes"). Esegue l'immenso Jordi Savall.

sabato 3 ottobre 2009

facce


Non penso di aver capito molte cose nella vita, ma di sicuro una è questa: che la realtà ha sempre molte più facce di quante ci farebbe comodo ne avesse.

venerdì 2 ottobre 2009

i racconti dell’età del jazz 9 - "Conversations with Bill"

C’è stato un periodo in cui ero convinto di essere Bill Evans.
Nel senso che dire “mi piaceva Bill Evans” è troppo poco. Innanzi tutto, la scoperta della sua musica, per me, ha in pratica coinciso con la scoperta del jazz; in secondo luogo, l’ascolto della sua musica è stato un’esplorazione di territori psichici che non ero del tutto cosciente di possedere.
Le ragioni sono facili da intuire: fra tutti i jazzisti della sua epoca Bill Evans fu, senza alcun dubbio, quello con le più profonde e complesse radici nella musica classica europea, e uno dei pochi che riuscì a fondere quelle radici con il jazz in modo talmente perfetto da non lasciar percepire nemmeno la più sottile linea di cesura. Per me, che cominciavo ad addentrarmi nel jazz, ma che fino ad allora mi ero nutrito a dosi massicce di Bach, Chopin, Debussy e Ravel, la sensazione di aver trovato un fratello gemello era insopprimibile.

(...continua su La poesia e lo spirito)

lampi - 26


Ad esempio: perché mai il centopiedi, che era rimasto fermo per ore al centro di una parete completamente vuota, all'improvviso e senza nessun motivo apparente si mette in moto, percorre a tutta velocità un metro e poi, altrettanto all'improvviso e altrettanto senza motivo, in un punto qualsiasi della parete, si ferma?

giovedì 1 ottobre 2009

a proposito di sex symbol

Ma quanto erano sexy 'ste dive degli anni Trenta?
Guardate, per esempio, da 6:27 a 7:50.



Da: Red Dust, 1932, con Jean Harlow, Clark Gable,
Gene Raymond e Mary Astor.
Il filmato si può vedere anche qui.