lunedì 1 febbraio 2010

paternità (due poesie di michael s. harper)



Avere un figlio ti insegna l'incommensurabilità tra esperienza e parola.
Ad esempio: si dice che avere un figlio ti cambia la vita. Sbagliato: avere un figlio ti rivolta come un guanto, ti mette di fronte a una sorta di te stesso cubista, dove tutti i piani vengono sfalsati nella direzione e nella prominenza.

Amare un figlio, poi, è cosa ben diversa dall'amare un amico, o un amante, che sono entità separate da te, con una loro volontà, un loro passato, un loro destino, un loro humus di ricordi ed esperienze dalle quali tu sei, del tutto o in parte, escluso. Un figlio è – non saprei bene come spiegarlo – un pezzo della tua stessa carne estratto e posto lì fuori, nel mondo, a camminare da solo. E l'amore che gli si porta è qualcosa di definitivo, pre-razionale, torrentizio: una forza soverchiante, dalla quale si viene travolti senza scampo.

Avere un figlio può essere un'esperienza di puro terrore. Il pensiero che qualcosa – qualunque cosa – possa arrivare a ferire quella minuscola concrezione di vita – un germe, un intoppo nel respiro, un boccone andato storto, una qualsiasi delle infinite manifestazioni del Male – è in assoluto il più angoscioso che io abbia mai provato.

Queste due poesie sono tratte da “Dear John, Dear Coltrane” (1970), il primo libro di poesie di Michael S. Harper, uno dei più importanti poeti afroamericani contemporanei.


* * *

DIAMO PER INTESO: SULLA MORTE DI NOSTRO FIGLIO, REUBEN MASAI HARPER

Diamo per inteso
che in 28 ore,
vissute in un'incubatrice pieghevole,
tu abbia imparato ad accettare l'ossigeno puro
come cielo naturale;
gli scarsi stenti respiri
che hanno riempito quelle ore
non hanno potuto, non ti hanno fatto volare –
ma i sogni c'erano
come tortuose impronte di palmi sugli
spessi doppi vetri della nursery –
nelle ghiandole di tua madre.

Diamo per inteso
che mani sterili
abbiano aspirato sostanze chimiche
dentro e fuori dei tuoi polmoni opachi di muco,
abbiano pompato il tuo stomaco,
spinto bicarbonato dentro
tortuose vene alate di verde,
fuori nella maschera di plastica.

Una donna che aveva perso il suo primo figlio
ci consolava con un angelo andato avanti
a pregare per la nostra famiglia –
andato in quel cielo
in cerca di ossigeno,
andato nell'autopsia,
finissima polvere di zucchero bruno,
cremazione usa-e-getta.

Diamo per inteso
che non hai saputo che ti amavamo.

* * *

ANCORA INCUBI

Ancora incubi:
l'utero contratto,
una noce o una prugna schiacciata;
i seni trasudano
latte inutile
nel dolore del figlio perduto
fuori del suo corpo
fuori del mondo
in polvere finissima.
La nascita inflitta sui denti
ogni notte si trascina
a un'infinita, digrignante conclusione.
Ancora incubi:
Ancora incubi.

2 commenti:

Liberty Alex ha detto...

proprio l'altro giorno ho provato a scrivere una poesia sulla nascita di un bambino...ma le mie intenzioni erano diverse:l'ho fatto ricordandomi del racconto che mia madre mi aveva fatto della mia nascita...ma detto dal punto di vista paterno è tutt'altra cosa...mi piace soprattutto DIAMO PER INTESO,perchè,non è solo un gioco di parole,è inteNsA,e sottolinea di più gli aspetti vitali della nscita

Anonimo ha detto...

www.paternita.info