martedì 29 giugno 2010

la risata che ci ha seppellito


da: Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa, Einaudi 2009, pp. 23-25
Poi arrivava la fine della giornata, le sere di quel 1984, e insieme con la sera scendeva su di noi un velo, un bagliore azzuro, a metterci d'accordo, a fare giustizia...
... da gennaio a dicembre scendeva su mia madre, scendeva su mio padre, sui direttori di banca, sui grossisti ormai lontani dai loro capannoni, scendeva questo bagliore che i tecnici sapevano essere la combinazione dei tre colori primari - il rosso, il verde, il blu, mischiati tra loro sullo schermo in tutti i possibili colori. Non si chiamava ancora televisione commerciale. Era, semplicemente, "la Cosa Nuova".
E quello che a me sembrava una presa diretta da una dimensione paralela era stato invece registrato quarantott'ore prima a Roma, finito di montare il giorno stesso, precisamente negli stabilimenti della Dear, una lunga giustapposizione di studi televisivi e camerini e corridoi a collegare un braccio all'altro della struttura verso la quale sugli autobus, sui taxi, sulle automobili private arrivavano settimanalmente le ballerine e i comici e le loro spalle e questo cocker triste di proprietà di un caro amico del comico più anziano che avremmo ricordato per i monologhi di fine puntata; e insieme a loro l'autore e il regista della trasmissione, gli unici a non passare dalla sala trucco. Ma prima della sala trucco, prima dei camerini e dei travestimenti - le ballerine, che poi non erano vere e proprie ballerine bensì ragazze di bella presenza con una disperata vocazione all'anominato, si travestivano da ragazze fast food mentre i comici, i due più noti perlomeno, il capocomico di mezza età e un trentenne di Biella la cui faccia era una vittoriosa antitesi delle facce degli attori d'avanspettacolo (Ezio Greggio, un monumento al niente), questi due comici indossavano enormi giacche colorate dai baveri taglienti -, prima dei camerini e della sala trucco, delle lucine accese sulle telecamere, capitava che le ballerine parlottassero tra loro, e i comici si consultavano con l'autore della trasmissione, poi l'autore col regista, poi arrivava un vassoio coi bicchierini di plastica sbaffati di caffè, e ancora chiacchiere e consultazioni prima di andare in onda... E la vera novità stava nel fatto che, a differenza di ciò che succedeva negli spettacoli televisivi del passato, i quarantacinque minuti della trasmissione vera e propria non erano la bella copia, il salire quei due o tre gradini che separavano il rodaggio precedente dal risultato finale, ma una discesa, uno scientifico abbassarsi sotto le quote dell'intelligenza, della grazia, dell'arguzia, dello spessore presenti in ogni essere umano coinvolto in quella trasmissione. Per questo il programma funzionò così bene, per questo fu una rivoluzione. Drive In... Il primo tentativo serio di portare in Italia ciò che oltreoceano stava accadendo già da qualche tempo - ovvero cambi di scena fulminanti, sketch veloci il doppio, il triplo rispetto a quelli del passato e presentati soprattutto come se fossero spot pubblicitari. E il suo autore, Antonio Ricci, uno che durante il Maggio francese aveva avuto diciott'anni, e aveva naturalmente manifestato e ciclostilato e cineforumizzato e solidarizzato con il lancio delle uova alle prime della Scala... il suo programma degli anni Ottanta non fu il tradimento della sua vita precedente, semmai al contrario la sua realizzazione più profonda - così come ci si era avvolti nel vento caldo della contestazione, adesso si tendevano le vele per sfruttare il vento gelido, che di quel vento caldo era stato il mandante, il vero soffio d'alimento.

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