martedì 28 settembre 2010

powerhouse - part 2


Powerhouse fa tutto il possibile con i segnali. Tutti, ridendo come per nascondere una debolezza, prima o poi gli porgono una richiesta scritta. Powerhouse le legge tutte, esaminandole con una faccia misteriosa; quella è la faccia che sembra una maschera: quelle di tutti; c'è un momento in cui prende una decisione. Poi una luce gli scivola sotto le palpebre, e dice, “92!” o una qualche combinazione di cifre: mai un nome. Prima di un numero la band è su di giri, tutta chiasso e spintoni, come bambini in un'aula scolastica, e lui è il maestro che fa fare silenzio. Le mani sui tasti, dice con severità: “Tutti pronti? Tutti pronti a fare sul serio?” – attesa – poi, SBAM. Silenzio. SBAM, per la seconda volta. Questo è assoluto. Poi una serie di colpi ritmici contro il pavimento per comunicare il tempo. Poi, O Signore! dicono gli occhi dilatati da dietro il confine delle trombe. Si parte, e tutti giù nella prima nota come una cascata.
Questa nota segna la fine di ogni disciplina conosciuta. Powerhouse sembra abbandonarli tutti – lui stesso sembra perso – giù nella canzone, urlando come preso in un gorgo – non li dirige – li precipita soltanto. Ma lui lo sa, credetemi. Grida, ma deve saperlo con esattezza. “Mercy!... What I say!... Yeah!”. E poi giù, in ascolto – “Dov'è quello scuotitamburi?” – è in cerca del batterista, e una volta partito lascia che tutto sgorghi con enorme, brutale godimento. Sui brani dolci ha quell'occhiatina per ciascuno di noi! Ci guarda tutti dritti in faccia dall'alto, con benevolenza, e ci sussurra il testo della canzone. E se tu potessi sentirlo in questo momento, su “Marie, the Dawn is Breaking”! Va su per la tastiera con un po' di dita, in una beffarda sequenza di terzine, va sempre più su, sempre più su, e poi guarda oltre il limite del pianoforte, come oltre un crinale. Ma non è esibizionismo: è la canzone che glielo fa fare.
Gli piace anche il modo in cui tutti suonano: tutti quelli vicino a lui. La sezione più lontana della band è tutta compunta, portano gli occhiali, tutti: loro non contano. Solo quelli che suonano attorno a Powerhouse sono importanti. Ha un contrabbassista di Vicksburg, nero come la pece, che si chiama Valentine, che suona con gli occhi chiusi, parlando tra sé e sé, molto giovane: Powerhouse deve incoraggiarlo di continuo. “Vai, vai, ora fermo, e adesso tira fuori tutto!”. Quando lo sentivi far così sui dischi, lo sapevi che lo stava chiedendo sul serio?
Chiama Valentine a fare un assolo.
“Che cosa suoni?”. Powerhouse lo guarda con gentilezza da dietro il pianoforte; apre la bocca e mostra la lingua, in ascolto.
Valentine guarda in basso, si appoggia al suo strumento, e senza muovere le labbra dice, “Honeysuckle Rose”.
Ha un clarinettista di nome Little Brother, e adora ascoltare qualunque cosa faccia. Sorride e dice, “Bello!”. Little Brother fa un passo avanti quando suona e se ne sta proprio lì davanti, con il bianco degli occhi simile a pesci che nuotano. Una volta, dopo che aveva suonato una nota bassa, Powerhouse ha borbottato un complimento malizioso: “Se n'è andato fino in cantina per prenderla!”.
Dopo molto tempo, mostra le dita per dire alla band per quanti giri ancora andare avanti: di solito cinque. Tiene tutto sotto controllo con i segnali.
È una cattiva serata, lì in sala. È un ballo per bianchi, e non balla nessuno, tranne qualche jitterburg qua e là e due coppie anziane. Tutti si limitano a starsene intorno alla band e a guardare Powerhouse. A volte si lanciano sguardi in tralice l'un l'altro, come a dire, Ovvio, sai com'è con loro – con i Neri – con i capiorchestra – suonerebbero sempre alla stessa maniera, dando tutto ciò che hanno, anche se ci fosse una sola persona tra il pubblico... Quando qualcuno, chiunque sia, dà tutto ciò che ha, la gente prova vergogna per lui.

(... continua)

1 commento:

amanda ha detto...

"Ma non è esibizionismo: è la canzone che glielo fa fare."

penso che il succo della questione sia questo