domenica 31 ottobre 2010

lampi - 77


Continua a scegliere donne non all'altezza delle sue aspettative erotiche.

sabato 30 ottobre 2010

woody

"Amare è soffrire. Se non si vuol soffrire non si deve amare. Però allora si soffre di non amare. Pertanto amare è soffrire, non amare è soffrire e soffrire è soffrire. Essere felici è amare, allora essere felici è soffrire. Ma soffrire ci rende infelici: pertanto per essere infelici si deve amare. O amare e soffrire. O soffrire per troppa felicità. Spero che tu stia prendendo appunti..."

(Woody Allen)

venerdì 29 ottobre 2010

débâcle


- I personaggi di una narrazione possono essere più o meno realistici, più o meno vicini alla nostra esperienza quotidiana, ma il narratore farà sempre di tutto per presentarceli in modo da farli sembrare veri. Manzoni, ad esempio, quando ci descrive Renzo e Lucia, lo fa come se fossero due persone veramente vissute in quel tempo e in quel luogo.
- (due o tre voci) Ma perché, prof, non sono vissuti davvero?
(pausa)
- No. Ovviamente.
- (mezza classe) Noooo, prof, ma dice sul serio? Ma mi fa crollare un mito...

giovedì 28 ottobre 2010

lampi - 76


Guardando su YouTube Renato Zero cantare Viva la Rai, ha iniziato la frase: “Ai miei tempi sì che...”.
Poi si è fermato di colpo, colto da un brivido.

mercoledì 27 ottobre 2010

l'amore d'inverno



http://www.youtube.com/watch?v=W0zSyrObgG0


A che pro (mi dico) smuovere la polvere
provare a cancellare le impronte
digitali le striature del calcare?
È inverno è il tempo dei vapori della
macerazione
adesso bisogna porre mente ai dettagli
osservare con molta cura i colori da cui
si staccheranno le ultime foglie. Hai visto mai potremmo
una volta tanto portare indietro qualcosa
di questa trasparenza che ci fa tanto smaniare.
È stato così anche allora
tutto derivò dall'aver serbato a lungo
la pelle intatta
e dall'averla ritrovata – comunque. Tutto
era già in quello spazio elastico
(invernale non a caso lo era anche allora) salivi con la sciarpa arancione
fino alla densità d'acquario dei nostri sei metri quadri
e non ci voleva molto a ritrovare l'assetto precisamente
come l'avevamo lasciato. Sono cose (il tuo odore ad esempio
non dico tutto – certe pieghe in particolare del tuo corpo) che resistono all'acqua
e ai detergenti c'è poco da fare.

martedì 26 ottobre 2010

ne sa più la penna


Spesso la penna ne sa più di chi la impugna.
(Bernard Berenson)

lunedì 25 ottobre 2010

dialogo



Pianeta A: "Ehi, amico, che brutta cera! Ma che hai?"
Pianeta B: "Ah, non me ne parlare. Una brutta malattia."
Pianeta A: "Come si chiama?"
Pianeta B: "Homo Sapiens."
Pianeta A: "Capisco. Ma non preoccuparti: passerà presto".

(letta da qualche parte su internet, non ricordo più dove)

domenica 24 ottobre 2010

eros e thanatos


Properzio, Elegie (IV, 7)

Dunque esiste l'aldilà: non tutto ha fine nella morte,
e l'ombra pallida sfugge al rogo sconfitto.
E infatti ho visto Cinzia sporgersi sul mio letto,
lei, da poco scesa nella terra presso il brusio di una strada,
mentre su di me pendeva il sonno, dopo la sepoltura
del mio amore, e piangevo nel letto, il mio regno per sempre gelido.
Erano uguali i capelli a quando la portarono via,
uguali gli occhi, la veste bruciata su un fianco,
toccato dal fuoco il berillio che portava sempre al dito,
e l'acqua del Lete le aveva avvizzito gli orli delle labbra.
Come i vivi respirava ed emetteva la voce: ma
i pollici le scrocchiarono nelle mani fragili.
“Perfido! Nessuna donna mai speri di averti migliore!
Dunque già ti ha sconfitto il sonno?
Hai scordato gli incontri furtivi nella Suburra insonne
e la mia finestra consumata dagli inganni notturni?
Quante volte di lì mi sono calata lungo una fune,
con una mano, poi con l'altra, fino a caderti in grembo?
Facevamo l'amore sul crocicchio, petto contro petto,
e i mantelli ci scaldavano il selciato.
O patto silenzioso, parole ingannevoli
che i venti insensibili dispersero!
Nessuno pianse sui miei occhi che si spegnevano:
se mi avessi chiamata, avrei strappato ancora un giorno:
nessun custode accanto a me suonò una canna forata,
e una tegola rotta fu il doloroso appoggio del mio capo.
[...]
E tuttavia non ti perseguito, Properzio, anche se lo meriteresti:
fu lungo il mio regno sui tuoi versi.
Io ti giuro, sulla sentenza irrevocabile del Fato,
e che il cane tricipite possa latrare meno forte verso di me,
che ti sono stata fedele. Se ti inganno, sibili la vipera
sul mio tumulo, e si annidi sulle mie ossa.
[...]
E ogni verso che hai scritto sul mio nome,
brucialo per me: non tenerti le lodi che mi appartengono!
Pianta un'edera sulla mia tomba, ché i corimbi maturi
mi avvolgano le tenere ossa con i rami contorti.
Dove l'Aniene siede tra i campi frondosi,
e per grazia di Ercole l'avorio non ingiallisce mai,
lì su una colonna scrivimi un epitaffio degno,
ma breve, che lo legga il viandante frettoloso che viene a Roma:
QUI NELLA TERRA DI TIVOLI GIACE L'AUREA CINZIA:
ALLE TUE RIVE, O ANIENE, SI E' AGGIUNTA UN'ALTRA LODE.
[...]
Ora ti posseggano altre: presto io sola ti avrò:
sarai con me e consumerò le mie ossa miste alle tue ossa”.
E quando ebbe detto questo, piangendo e accusando,
svanì la sua ombra al mio abbraccio.

sabato 23 ottobre 2010

perversi polimorfi inconcludenti


Conosco qualcuno che si è avventurato quasi dappertutto e si è sempre fermato per strada. Necrofilo impotente, eterosessuale senza futuro, pederasta mancato, zoofilo reticente, feticista indigente, coprofago spilluzzicante, pedofilo in difetto di pazienza... quando si guarda in uno specchio, si vede subito scuotere la testa con un'indulgenza preoccupata. Per fortuna, gli resta la risorsa della creazione letteraria o artistica, la sovraccompensazione favolistica. Poiché ancora una volta il possibile non prolifera così da nessun'altra parte come sulle rovine del reale. Disegno, pittura, poesia o romanzo ridanno un'occasione a tutti questi aborti e possono tirare fuori da ognuno di essi - ma nella dimensione dell'immaginario - una vita felice e avventurosa.

(Michel Tournier)

venerdì 22 ottobre 2010

lampi - 75


L'ha giurato: al prossimo "Osanna eh" dà fuori di matto.

giovedì 21 ottobre 2010

happy birthday, john


Caso più unico che raro: oggi il logo dell'home-page di Google è dedicato all'anniversario (il novantatreesimo) della nascita di John Birks Gillespie, meglio noto come "Dizzy", che vi è rappresentato con le tipiche guance iperenfiate e l'inconfondibile tromba sghemba.
Colgo ben volentieri l'occasione.



http://www.youtube.com/watch?v=pIvCJC8oAIE

mercoledì 20 ottobre 2010

lampi - 74


La difficoltà a distinguere il miglioramento dall'assuefazione.

martedì 19 ottobre 2010

voulez-vous délirer avec moi?


Visto che il mondo sta prendendo una direzione delirante, è il caso di assumere un punto di vista delirante.
(Jean Baudrillard)

lunedì 18 ottobre 2010

lampi - 73


In fotografia è bella. Dal vivo, letteralmente, emana luce.

domenica 17 ottobre 2010

"gesù, ma comme chiove!"


E' domenica pomeriggio. Piove, fa freddo.
Forse è la prima giornata davvero fredda di quest'autunno. La mia anima di terrone si intristisce e chiede sole, sole, sole.
Il giardino è grigio e smorto, le foglie del Crataegus, come piccole grondaie, mandano la pioggia a raccogliersi nella canaletta di scolo ormai ostruita. Sotto il tavolo d'alluminio c'è una pozza di acqua sporca che non riflette nulla.
La moglie e la bambina guardano "Monsters & Co." in soggiorno. Il piccolo dorme; ha pianto tutta la notte, perché ha un po' d'influenza e un paio di dentini che spuntano. Io sono nello studio, da ieri ho una laringite fulminante che mi impedisce di parlare, se non a sussurri e con frasi smozzicate. Non che di solito parli molto di più, d'altronde.
Insomma, la malinconia è nell'aria.
E allora assecondiamola, la malinconia. E anche la terronità, visto che ci siamo.
Questa si chiama "Chiove", ma è conosciuta anche come "'A canaria" ("il canarino"), per via del ritornello. Comunque, è una canzone che parla di pioggia.
Il testo è del grande Libero Bovio (1883-1942), l'autore di capolavori come "Tu ca nun chiagne", "Reginella", "'O paese d''o sole", "Lacreme napulitane". La musica è del foggiano (vedete che tutto torna?) Evemero Nardella (1878-1950) (fra le tante bellissime canzoni da lui scritte, vorrei ricordare la poco conosciuta, ma splendida "Mmiez'o ggrano").
Narra la leggenda che i due l'abbiano scritta nel 1933, dopo aver fatto visita ad Elvira Donnarumma, grande chanteuse napoletana dei primi del Novecento, che giaceva ammalata e prossima a morire.
Insomma, una canzone bella triste. Proprio quel che ci vuole, oggi.
Canta Enzo Gragnaniello.


http://www.youtube.com/watch?v=gEwL6WEGNoI

Tu staje malata e cante,
tu staje murenno e cante.
So' nove juorne, nove,
ca chiove, chiove, chiove.

E se fa fredda ll'aria,
e se fa cupo 'o cielo,
e tu, dint'a stu ggelo,
tu sola, cante e muore.

Chi si'? Tu si' 'a Canaria.
Chi si'? Tu si' ll'ammore.
Tu si' ll'Ammore,
ca pure quanno more,
canta canzone nove.
Giesù, ma comme chiove!

Tu, comm'a na Madonna,
cante na ninna-nonna
pe' n'angiulillo 'ncroce
ca vo' sentí 'sta voce.

'Sta voce sulitaria
ca dint''a notte canta.
E tu, comm'a na Santa,
tu, sola sola, muore.

Chi si'? Tu si' 'a Canaria.
Chi si'? Tu si' ll'ammore.
Tu si' ll'Ammore,
ca, pure quanno more,
canta canzone nove.
Giesù, ma comme chiove!

giochi sull'erba


(la foto è di Antonio Lillo - da qui)


Voi sì potete saltare da un'isola
all'altra da luce a luce
morendo e rinascendo
il prato tornerà sempre ad essere prato
dopo ogni caduta.

sabato 16 ottobre 2010

non è la musica


Non sono nobili le cose che nomino in poesia:
stanno sotto il palato, attente, coscienti solo del caldo.
Se ascoltano, sentono il moto, l'onda di un'eco
che porta rosse lettere, destini, e un turbine di voci
smarrite - come sempre - in ciò che è cupo e cavo.
Dunque di nuovo dico: alberi - anzi - platani
attirati dall'acqua e sostenuti ai bordi dalle pietre.
Questo sì è difficile: cantarne piano il miracolo
quel peso nella luce, quell'ombra
che s'incrocia col tempo e divampa sull'odore del prato.

Tutto è corpo che l'anima raggiunge con ritardo
ma sfolgora l'autunno in un cantuccio e la parola si forma
con il ritmo che deve: a grumi, a vuoti
a scatti, dentro i secoli.
E non è la musica che dici, ma un rombo di stoviglie, di grandine
che batte contro i muri.

(Antonella Anedda)

venerdì 15 ottobre 2010

la parola ostile


Senzavento

Per il vecchio che ieri spingeva il suo carro di olive oltre i cancelli del parco, per la breve, agghiacciante risata dei bambini che montano furiosi e soli le bestie delle giostre. Forse è questo a togliermi la pace di ogni rima: essere indifferente all'armonioso dispiegarsi del linguaggio, essere ostile. Mai di una parola mi sono compiaciuta. L'ho solo piegata, il poco che potevo, con sconforto, con umiliazione: così rada, così lontana da ogni limpida certezza.

(Antonella Anedda)

giovedì 14 ottobre 2010

pietà del buio



Se ho scritto è per pensiero
perché ero in pensiero per la vita
per gli esseri felici
stretti nell'ombra della sera
per la sera che di colpo crollava sulle nuche.
Scrivevo per la pietà del buio
per ogni creatura che indietreggia
con la schiena premuta a una ringhiera
per l'attesa marina - senza grido - infinita.

Scrivi, dico a me stessa
e scrivo io per avanzare più sola nell'enigma
perché gli occhi mi allarmano
e mio è il silenzio dei passi, mia la luce deserta
- da brughiera -
sulla terra del viale.

Scrivi perché nulla è difeso e la parola bosco
trema più fragile del bosco, senza rami né uccelli
perché solo il coraggio può scavare
in alto la pazienza
fino a togliere peso
al peso nero del prato.

(Antonella Anedda)

mercoledì 13 ottobre 2010

matematiche


Non è vero che uno più uno fa sempre due; una goccia più una goccia fa una goccia più grande.
(Tonino Guerra)

martedì 12 ottobre 2010

gli ospiti


(testo letto a Rimini, il 26 settembre scorso, in questa occasione)

Ecco: adesso dovrei provare a tornare indietro. A rintracciare il primo gesto, quello da cui è zampillato tutto.
Ma non ci riesco.
Per esempio, ci sono io che spariglio le parole crociate di mio nonno inserendo a caso tutte le lettere che ho imparato: una R di qui, una T di là, una A quaggiù.
Ma c'era qualcos'altro, prima?
Sì: ci sono io che, in braccio a qualcuno (chi?), aggrotto la fronte nello sforzo di compitare l'insegna del negozio di elettrodomestici di fronte a casa.
Ma no, c'è qualcosa ancora prima.
Leggo una favola. No, non leggo: la so a memoria, faccio finta di leggere, forse tengo addirittura il libro al contrario.
Ecco, niente da fare: il gesto primordiale è lì in mezzo, da qualche parte, sommerso per sempre.
La prima parola scritta. O, meglio ancora: la prima decifrata, la prima che all'improvviso si è accesa di senso, la prima supernova grafematica esplosa tra i miei neuroni.

E allora, riproviamo: quand'è che le parole hanno smesso di essere supernovae, luci lontane e passive, e hanno cominciato a ustionarmi?
Ecco, questo me lo ricordo.
Mi ricordo che era il 1987 e avevo tredici anni, e c'era la premiazione di un concorso di poesia, i poeti premiati leggevano i loro testi. Testi bruttissimi, va detto.
Però è stato lì, in quel posto preciso, in quel preciso momento, che è cominciato tutto.
Lì mi ha abbagliato per la prima volta la consapevolezza che con le parole ci si poteva fare qualcosa.
Tornato a casa, scrissi la prima poesia di cui conservo precisa memoria. Non vi preoccupate, non ve la leggo. L'importante è sapere che c'è.
L'importante è che, da quel momento in poi, le parole hanno preso vita e io ho cominciato a rigirarmele tra le mani come strane conchiglie, a scrutarne gli spigoli, a tentarne gli accoppiamenti.

Ecco, ora che ci siamo arrivati, torniamo indietro.
Ripensandoci, mi pare di essere sempre stato avvolto da un liquido amniotico di parole. Parole parlate, parole lette da altri, e infine parole lette da me.
C'è la voce di mio nonno, che mi racconta di come la volpe ingannò il lupo, e di quell'omino tutto felice perché aveva trovato un cece (anzi, “un cicetto”, come diceva lui), e di quel ragazzino che non voleva proprio mangiare il suo maccherone e di quel che ne seguiva.
Ci sono i nomi: Sandokan e Tremal Naik, Mowgli e di Bagheera e Shere Khan, e Jim Hawkins e Cane Nero e Long John Silver, e poi Hans Castorp, che mi schiudeva le porte della vita adulta, e Arsenio ed Esterina e Dora Markus.
E poi ci sono i versi, quella trapunta di parole, quel ricamo minuzioso che brulica, ora più fitto ora più rado, al di sopra e al di sotto dei miei ricordi.

Ecco, ora sarebbe il momento delle domande. Le grandi domande, quelle assolute, definitorie, che ti appendono al muro come spilli.
Anzi, della domanda. Perché scrivo?
Io ci ho provato, a rispondere.
Ad esempio, ho tentato con le metafore:

Scrivendo
ricalco i confini del vuoto.

Oppure ho scritto che

Forse anche le idee vogliono vivere
respirare leggere il giornale

le mie sono ali di mosca impiastricciate.

Le idee dovrebbero farsi male
come i bambini scherzando
mangiarsi schioccando le labbra

Ho persino scritto:

Pensavo a una poesia che potesse
arredare una stanza
lasciar intravedere il paesaggio al di là delle persiane
posarsi come polvere.

E una volta ho anche scritto che

Le parole ci visitano
vanno e vengono da luoghi
impronunciabili – encefalo Es
Anima Mundi. Soggiornano
a volte per tempi lunghissimi, a volte
appena quanto basta per lasciare
tracce leggere sulla carta. Sono ospiti inattesi
e intoccabili, odiosi e inamovibili.

Ma mi accorgo che, di qui, non si arriva da nessuna parte.
La verità è che con questi ospiti io continuo a conviverci; volentieri, malgrado tutto.

Perché ci sono nella mente minime scalfitture, ed è di lì che le parole affiorano, che la linfa si raggruma in versi. È attraverso queste lesioni che i sogni più inconfessabili salgono a reclamarci.
E penso spesso che, se sopravvivrò, sarà proprio per la parte più stanca e crivellata della mia mente; per questo cieco insistere di radici.
Ecco, forse ero più vicino alla verità quando ho scritto che

Ogni volta è come la prima e ogni volta sembra
l'ultima. Ci si chiede dove il silenzio abbia sede
dentro o fuori.
Resta il fatto che il risveglio è sempre spietato
ti lascia con la pelle scorticata
la testa che rimbalza come dopo il pugno
e le parole sempre arroventate

bisogna lasciarsi squarciare.



Perché il dubbio, poi, resta sempre: chi genera chi?
Se, in questo ottuso gocciare di momenti dietro momenti che è la vita, potrò dire di aver vissuto, non sarà forse per questi attimi concessi con parsimonia, per queste parche evasioni dall'Io, questa docile collisione di corpo ed anima, questo frantumarsi in schegge sonore?
E allora, come potrò dire che le parole sono mie?
Non dovrò forse dire che io sono loro?

Ecco, è ora di accettare il fatto: che per quanto cerchi di liberarmene, questa placenta di parole che genero, e dalla quale sono generato, è quanto di meglio io possa lasciare in eredità al mondo.
Quest'alito che ancora adesso, pervicacemente, mando a raggrumarsi su un foglio bianco, sullo schermo lucente di un computer. E sono davvero nato, nato a me stesso, nato al mondo, quando ho raccolto e deposto la prima semenza di parole.
Prima c'è un graffio leggero nell'aria, uno slancio di libellula, una traiettoria capricciosa, come quella dei semi alati che sotto i pini cercavo di catturare, prima che toccassero terra.
Ecco, io non toccavo terra, prima. Passavo leggero.
Sono state le parole a regalarmi la gravità, a consegnarmi al mondo, a insegnarmi i confini precisi del mio essere.
E solo con le parole posso combattere il peso, tollerare la vista dell'enigma, avere pietà della vita, reggere il cranio sulle vertebre.

È un dono crudele e nutritivo.
È un dolore da difendere.

lunedì 11 ottobre 2010

lampi - 72


Il polpaccio sinistro, compresso nel gesto di accavallare le gambe. Sotto il bianco della pelle traspare una vena, un brevissimo tragitto azzurro e guizzante, subito sommerso.
La gravità della situazione diventa evidente quando si rende conto di essere innamorato anche di quella vena.

domenica 10 ottobre 2010

lampi - 71


Gli si dispiega davanti agli occhi, guardandola, un intero fascio di possibilità irrealizzate (e irrealizzabili).

sabato 9 ottobre 2010

god is pain


Dio è un concetto tramite il quale misuriamo il nostro dolore.
(John Lennon)

venerdì 8 ottobre 2010

invito alla storia (disinvolta) del jazz

Colgo e rilancio, dal blog MondoJazz, l'invito a recuperare (per chi se la fosse persa, ovvio) la trasmissione "Body & Soul - Storia disinvolta del jazz", andata in onda quest'estate, dal 7 luglio al 12 settembre, su Radio3 (e dove, sennò?).
Ventuno puntate, condotte alternativamente da Stefano Zenni, Carlo Boccadoro e Claudio Sessa, per un viaggio nella storia del jazz rigoroso, ma allo stesso tempo divertente, adatto ai neofiti così come agli appassionati.
Questa è la scaletta delle puntate (cliccando su ognuna si può vedere la lista dei brani trasmessi), e qui si possono scaricare tutte in podcast.
Buon ascolto.

giovedì 7 ottobre 2010

god is always drunk



There ain't no devil, it's just God when he's drunk.

mercoledì 6 ottobre 2010

recensioni in pillole 67 - "Pioggia e vento su Télumée"

Simone Schwarz-Bart, Pioggia e vento su Télumée, Fabbri Editori, 1999 (213 pp.)

Ho sentito parlare di Simone Schwarz-Bart perché è la moglie di André Schwarz-Bart. E ho sentito parlare di André Schwarz-Bart perché è il padre di Jacques Schwarz-Bart, un interessante sassofonista jazz di origini franco-antillane.
André Schwarz-Bart nacque nel 1928 da una famiglia di ebrei polacchi (il vero nome era Abraham Szwarcbart), emigrati in Francia quattro anni prima della sua nascita. Il suo “L'ultimo dei giusti” (1956), considerato uno dei grandi testi sull'Olocausto, ce l'ho da tempo sullo scaffale, in attesa di essere letto. Dopo aver combattuto nella Resistenza, emigrò sull'isola della Guadalupa, terra d'origine della moglie Simone.
Insieme, i due pubblicarono nel 1967 “Un plat de porc aux bananes vertes”, che avrebbe dovuto essere il primo volume di una vasta opera, destinata a rileggere il passato delle Antille attraverso la sua componente africana, in particolare quella femminile. L'opera non vide mai la luce, ma nel 1972 uscirono due romanzi ad essa collegati: uno a firma di André, ma in realtà con la collaborazione di Simone, dal titolo “La mulâtresse Solitude” (gran bel romanzo, epico e lirico, incentrato sulla figura di una ragazza africana rapita e venduta in schiavitù, e divenuta un'eroina della rivolta degli schiavi; la traduzione italiana, intitolata “La mulatta”, credo purtroppo sia fuori catalogo da anni), e uno a nome di Simone, che è appunto questo “Pluie et vent sur Télumée Miracle”.
Télumée, la protagonista, vive nella Guadalupa in un periodo non specificato, ma che si può collocare intorno alla prima metà del Novecento. La schiavitù è stata abolita da almeno due o tre generazioni, ma le condizioni di vita dei neri non sono poi cambiate di molto: miseria, ignoranza, sfruttamento, e come unico orizzonte il massacrante lavoro nelle piantagioni di canna da zucchero.
È la voce della stessa Télumée, ormai vecchia, a raccontarci la sua vita, trascorsa aggrappata a un piccolo, sperduto angolo rurale della Guadalupa, ultima tra gli ultimi della Terra. Lì conosce la felicità e il dolore, l'amore e l'abbandono, sbattuta come una canna da pioggia e vento.
Quella minuscola porzione di mondo diventa una sineddoche dell'umanità intera, e Télumée un simbolo della resistenza tenace, invincibile delle donne nere.

martedì 5 ottobre 2010

play what you feel



http://www.youtube.com/watch?v=ZNw46j0nNOs


"Ormai molti jazzisti cercano un collegamento tra il jazz e le altre musiche nere di oggi: e credo che non possano evitare di farlo. Questo è l’aspetto più bello: che non è qualcosa di intenzionale. L’altro giorno io e il mio batterista stavamo ascoltando una compilation di pop anni ’90 e ci siamo quasi spaventati, perché ci siamo resi conto che conoscevamo, una per una, tutte le canzoni di quella stupida compilation. Ma non possiamo farci niente: sono cose che fanno parte di noi, erano ogni giorno alla radio mentre crescevamo. Una persona cresciuta negli anni ’70 non potrà non avere nel sangue Sly and the Family Stones, e così è per tutti i musicisti. Non puoi fare a meno di suonare ciò che senti".

(Esperanza Spalding)

lunedì 4 ottobre 2010

onomastica


Credo di averlo già detto altrove: dentro di me dorme un dèmone classificatorio. Quando si risveglia, avverto il bisogno impellente di compilare liste, schemi, classifiche, tabelle.
E una delle occasioni in cui si risveglia è quando, all'inizio dell'anno scolastico, scorro gli elenchi dei nuovi alunni. Comincio a ragionare su nomi, date, coincidenze.
Quest'anno, per esempio, mi sono divertito a fare una classifica dei nomi.

Tanto per informazione, il campione statistico è costituito da tre classi prime, totale 89 alunni. La scuola è un ex-Magistrale, attualmente Liceo delle Scienze Umane, e una delle eredità della vecchia scuola è la preponderante presenza femminile (nella fattispecie, 82 femmine contro 7 maschi).
L'età media è sui 15 anni, quindi classi 1994/1996, più o meno.

Il primo posto se lo aggiudica, prevedibilmente (siamo in Umbria), Chiara, con 9 attestazioni, 5 delle quali in un'unica classe.
Seguono gli altrettanto prevedibili Martina (8, di cui 5 nella stessa classe) e Giulia (5).
Al quarto posto, un inaspettato ex-aequo tra Eleonora e Lucia (4).
Seguono, al quinto posto, con 3 punti ciascuna, Alessia, Elisa e Marika (due Marike nella stessa classe, per di più contingue nell'appello).
Al sesto posto, ex-aequo a 2 punti: Ilaria, Silvia, Sofia (tre nomi sui quali avrei scommesso di più), Isabella, Arianna, Laura e Greta.

C'è poi la schiera dei nomi solitari, attestati una volta sola.
Anche qui ci sono nomi sui quali avrei puntato, ad esempio Noemi, Jessica, Valentina, Pamela, Erika o Alice.
Ci sono una Evellyn e una Khelia Madege, entrambe straniere (brasiliana e africana).
Ci sono nomi un po' più insoliti, come Emily, Colomba, Renata, Melissa, Ludovica, Myriam, Sonia, Stella, Anita.
E ci sono tanti bei nomi italiani, chissà perché derelitti: Francesca, Caterina, Anna, Claudia, Maria, Maria Grazia, Elena, Sara, Teresa, Emanuela.

Quanto ai maschi, un punto ciascuno a Matteo, Christian, Guido, Leonardo, Francesco, Jacopo e Andrea.

domenica 3 ottobre 2010

remedium tristitiae


(a mia figlia)

Non farci caso è ancora un po' della vecchia
tristezza di settembre un detrito
più leggero degli altri che riaffiora
qui sull'impiantito sul confine tra la pioggia
e il tepore – grande attrazione
per ragni centopiedi e lumache senza guscio –
e qui potrei posarlo
un sassolino bianco liscio come un astragalo
invece lo rituffo nell'acqua intatta
nei tuoi occhi allegri.

sabato 2 ottobre 2010

powerhouse - part 6


“Manda un telegramma”, urla all'improvviso Powerhouse nella pioggia, in mezzo alla trada. “Manda una risposta. Com'era quel nome?”.
Cominciano ad essere stanchi.
“Uranus Knockwood”.
“Dovresti saperlo”.
“Ah sì? Ditemi come si scrive”.
Glielo dicono in tutti i modi possibili. Questo li mette di un umore meraviglioso.
“Ecco la risposta. Ce l'ho proprio qui. 'Di che diavolo stai parlando? Non me ne importa un bel niente: Ti ho beccato!'. Firmato: Powerhouse”.
“Questo gli arriverà, Powerhouse?”. Valentine parla con tono materno.
“Sì, sì!”.
Seguendolo in perfetto silenzio, a distanza, lungo la strada buia, come come vecchi fantasmi scuri impregnati di pioggia, i neri hanno paura che muoiano dalle risate.
Powerhouse getta indietro la sua grande testa nella pioggia battente, e un desiderio speranzoso sembra esplodere come un vapore dalle narici dilatate sulla faccia, e diffondere una nebbiolina sui suoi occhi.
“Gli arriverà e lo trapasserà da parte a parte”.
“Proprio così, Powerhouse, proprio così. Devi farglielo sapere”.
Powerhouse emette un sospiro.
“Ma non torni laggiù a fare un'interurbana a Gipsy, come hai fatto ieri sera in quell'altro posto? Ho visto un telefono... Solo per vedere se è a casa?”.
C'è una misura di silenzio. Questo è un batterista pazzo che un giorno o l'altro si farà rompere il collo.
“No”, ringhia Powerhouse. “No! Quante migliaia di volte stanotte dovrò dire No?”.
Tiene alto il braccio nella pioggia.
“Certo che se una sera lascerai uscire tutta la tua voce, poco ci mancherà che arriverai laggiù fino a lei”, dice Little Brother, allarmato.
Se ne vanno lungo la strada, scuotendosi via la pioggia di dosso come uccelli.

Tornati alla sala da ballo, suonano “San” (99). I jitterburg ricominciano, come mulini a vento piantati per terra, e fra le loro orbite – un cerchio, un altro, un lungo affondo e uno zigzag – danza la coppia anziana con antica eleganza, indisturbata e cerimoniosa.
Quando Powerhouse è rientrato dall'intervallo, senz'altro pieno di birra, hanno detto, ha fatto accordare la band alla sua maniera. Non ha schiacciato i tasti del pianoforte per dare il la: ha solo aperto la bocca e ha lanciato delle grida in falsetto – in la, in re, e così via – e loro si sono intonati a lui. Poi si è sistemato al pianoforte, come se lo vedesse per la prima volta in vita sua, e ne ha testato la forza, l'ha colpito giù nei bassi, ha suonato un'ottava con il gomito, ha alzato il coperchio, ci ha guardato dento, e ci si è calato sopra con tutta la sua potenza. Si è seduto e l'ha suonato per qualche minuto con una forza spaventosa e l'ha ridotto in suo potere – un basso profondo e ruvido come una rete da pesca – poi ha prodotto qualcosa di baluginante e di fragile, e ha sorriso. E chi potrebbe mai ricordarsi anche solo una delle cose che dice? Sono commenti ispirati, che gli escono dalla bocca come fumo.
Gli hanno chiesto “Somebody Loves Me”, e lui ha già fatto dodici o quattordici chorus, mettendoli in fila nessuno sa come, e ci sarà da stupirsi se arriverà mai alla fine. Di tanto in tanto lancia un richiamo e grida, “ 'Qualcuno mi ama! Qualcuno mi ama! Mi chiedo chi!' ”.
“Forse...”. Usa tutta la mano destra per un trillo.
“Forse...”. Tira indietro le dita distese, e dà un'occhiata al punto in cui è arrivato. Un grande, impersonale e insieme furioso ghigno gli trasfigura la faccia madida.
“... Forse sei tu!”.

(FINE)

venerdì 1 ottobre 2010

powerhouse - part 5


Ora tutti i neri che stavano a guardare si accalcano docilmente, sulla porta, con gli occhi accesi, tanti quanti ce n'entrano. Uno è un ragazzino con un sombrero di paglia, tutto rivestito di pittura color alluminio.
Powerhouse, Valentine, Scott e Little Brother bevono birra, e le loro palpebre si toccano come tendaggi. Li circondano il muro e la pioggia e la cameriera bella e umile che li serve e gli altri neri che li scrutano.
“Ascoltate!”, mormora Powerhouse, guardando la bottiglia di ketchup e stendendo lentamente le mani da uomo di spettacolo sull'umida, stropicciata tovaglia a scacchi rossi. “Ascoltate come stanno le cose. Mia moglie comincia a sentire la mia mancanza. Gipsy. Va alla finestra. Guarda fuori e vede voi-sapete-cosa. La strada. Insegne che dicono Albergo. La gente che cammina. Qualcuno guarda in alto. Un vecchio. Lei guarda in basso, fuori dalla finestra. Beh?... Sssss! Sploch! Che cosa fa? Salta e si sparge le cervella tutto in giro”.
Apre gli occhi.
“È così”, concorda Valentine. “Hai ricevuto un telegramma”.
“Certo che sente la tua mancanza”, aggiunge Little Brother.
“No, è la notte”. Con che dolcezza glielo dice! “Certo, è la notte. Lei dice, Che cosa sento? Passi che arrivano dall'atrio? È lui? I passi si allontanano. Non sono io. Io sono ad Alligator, Mississippi, lei è fuori di sé. Trema tutta. Ascolta finché le orecchie e tutto il resto le diventano come un vecchio corno da grammofono ma non riesce a sentire niente. Dice, hm hm, bene, e salta dalla finestra. È infuriata con me! È fuori di sé! Non si lascia niente dietro!.
“Sì! Ha!”.
“Cervello e budella dappertutto, o Signore, o Signore”.
Ma tutti i neri che lo guardano gongolano di piacere, e per il loro maggior piacere dice teneramente, “Li sentite? Ratti!”.
“Dev'essere andata proprio così, capo”.
“Solo che, no, Powerhouse, non è vero. Sarebbe troppo brutto”.
“Davvero? So persino chi l'ha trovata”, grida Powerhouse. “ Quel buono a nulla vigliacco di un viscido cantantucolo, quel viscido che mi viene dietro, che mi spunta dietro come l'erbaccia, che mi segue qualunque cosa faccia e si mette a cazzeggiare dove poco prima c'ero io. Si gioca i miei numeri, canta le mie canzoni, gira intorno al mio agente come un moscone; quando esco io entra lui. Ma ora l'ho beccato! Lo tengo d'occhio!”.
“Sai chi è?”
“Beh, è quel solito Uranus Knockwood!”.
“Sì! Ha!”.
“Sì, e ora arriva e trova Gipsy. Eccolo lì, che gira quell'angolo, e Gipsy che piroetta giù, oh-oh, guarda un po'! Ssss! Sploch! Guarda, è proprio lì con la sua solita camicina da notte, e le budella e il cervello tutti sparsi intorno!”.
Un sospiro riempie la stanza.
“Basta parlare del suo cervello. Basta parlare delle sue budella”.
“Sì! Ha! Parli del suo cervello e delle sue budella... vecchio Uranus Knockwood”, dice Powerhouse, “guardi giù e dici Gesù! Guarda un po' su che cosa sono andato a mettere i piedi!”.
Tutti scoppiano in una cagnara di risate. La faccia di Powerhouse sembra una grossa caldaia arroventata.
“Beh, lui la prende e la porta via!”, dice.
“Sì! Ha!”.
“Se la riporta dietro l'angolo...”.
“Oh, Powerhouse!”.
“Lo conoscete”.
“Uranus Knockwood!”.
“Sììììì!”
“Si porta via le nostre mogli quando noi siamo via”.
“Lui entra quando noi usciamo!”.
“Uh-huh!”.
“Lui esce quando noi entriamo!”.
“Sììììì!”.
“Lui se ne sta dietro la porta!”.
“Il vecchio Uranus Knockwood”.
“Lo conoscete”.
“Uno di taglia media”.
“Porta un cappello”.
“È lui”.
Tutti nella stanza gemono di piacere. Il ragazzino con il bel cappello argentato apre un involto e divide un dolcetto tra i suoi seguaci.
E dal cerchio col fiato sospeso qualcuno si fa avanti come uno schiavo, trascinando un nero grosso e tardo con gli occhi sbarrati, e dice, “Questo qui è Sugar-Stick Thompson, che si è tuffato fino in fondo al July Creek e ha tirato su tutti quei bianchi annegati caduti giù da una barca. L'estate scorsa, ne ha tirati su quattordici”.
“Salve”, dice Powerhouse, girandosi a guardarli tutti con la sua grossa faccia sfrontata, fin quasi a toglier loro il respiro.
Sugar-Stick, il loro strumento, non può parlare; può solo guardare gli altri, dietro di sé.
“Non sa nemmeno nuotare. Ci è riuscito trattenendo il fiato”, dice il tizio con l'eroe.
Powerhouse lo guarda.
“Io sono il suo fratellastro”, aggiunge il tizio.
Si rifanno indietro.
“Gipsy dice”, Powerhouse ricomincia a borbottare dolcemente, guardandoli, “ 'A che serve? Salterò così lontano – così lontano.....' Ssss...!”.
“No, capo, non lo rifare”, dice Little Brother.
“È orribile”, dice la cameriera. “Odio quel Mr. Knockwood. È tutto vero?”.
“Vuoi vedere il telegramma che ho ricevuto da lui?”. La mano di Powerhouse va verso la grande tasca.
“Aspetta, aspetta capo”. Tutti lo guardano.
“Dev'essere proprio la verità”, dice la cameriera, succhiandosi il labbro inferiore, gli occhi lucenti che si girano tristemente, in cerca delle finestre.
“No, piccola, non è vero”. Le sopracciglia gli si sollevano, e comincia a sussurrare verso di lei con la sua grande bocca a forno. La sua mano rimane in tasca. “La verità è qualcosa di peggio, non l'ho ancora detto. È qualcosa che non mi è ancora venuto in mente, ma non dico che non mi verrà in mente prima o poi. E quando lo farà, vuoi proprio che te lo dica?”. Di colpo tira su col naso, i suoi occhi si aprono e si girano verso l'alto, quasi troppo velocemente. Ha un sorriso sognante.
“No, capo, no, Powerhouse!”.
“Oh!”, urla la cameriera.
“Forza usciamo di qui!”, ruggisce Powerhouse, tirando la mano fuori dalla tasca e dando una pacca sul retro del suo vestito rosso.
L'anello di spettatori si rompe e si disperde.
“Guardate! L'intervallo è finito”, dice Powerhouse.
Arrotola il denaro sotto un bicchiere, e dopo che escono, Valentine si sporge all'indietro e lascia cadere un nichelino nel juke-box dietro di loro, che si illumina e comincia a suonare “The Goona Goo”. La piuma sta ancora dondolando.

(... continua)