giovedì 30 giugno 2011

lampi - 147


Dillo con parole mie.

mercoledì 29 giugno 2011

fior d'ogni colore


In un boschetto trova’ pasturella
più che la stella – bella, al mi’ parere.

Cavelli avea biondetti e ricciutelli,
e gli occhi pien d’amor, cera rosata;
con sua verghetta pasturav’agnelli;
discalza, di rugiada era bagnata;
cantava come fosse ’namorata:
er’adornata – di tutto piacere.

D’amor la saluta’ imantenente
e domandai s’avesse compagnia;
ed ella mi rispose dolzemente
che sola sola per lo bosco gìa,
e disse: «Sacci, quando l’augel pìa,
allor disìa – ’l me’ cor drudo avere».

Po’ che mi disse di sua condizione
e per lo bosco augelli audìo cantare,
fra me stesso diss’i’: «Or è stagione
di questa pastorella gio’ pigliare».
Merzé le chiesi sol che di basciare
ed abracciar, – se le fosse ’n volere.

Per man mi prese, d’amorosa voglia,
e disse che donato m’avea ’l core;
menòmmi sott’una freschetta foglia,
là dov’i’ vidi fior d’ogni colore;
e tanto vi sentìo gioia e dolzore,
che ’l die d’amore – mi parea vedere.

Guido Cavalcanti

martedì 28 giugno 2011

lezioni di stile 3 - il canonico (seconda parte)

Costui fu chiamato una bella mattina con imponente solennità dinanzi a suo padre; il quale per quanto ostentasse l’autorevole cipiglio del signore assoluto aveva in fondo il fare vacillante e contrito d’un generale che capitola.
– Figliuol mio – cominciò egli a dire – la professione delle armi è una nobile professione.
– Lo credo – rispose il giovinetto con una cera da santo un po’ intorbidata dall’occhiata furbesca volta di soppiatto alla madre.
– Tu porti un nome superbo – riprese sospirando il vecchio Conte. – Orlando, come devi aver appreso dal poema dell’Ariosto che ti ho tanto raccomandato di studiare...
– Io leggo l’Uffizio della Madonna – disse umilmente il fanciullo.
– Va benissimo; – soggiunse il vecchio tirandosi la parrucca sulla fronte – ma anche l’Ariosto è degno di esser letto. Orlando fu un gran paladino che liberò daiMori il bel regno di Francia. E di piú se avessi scorso la Gerusalemme liberata sapresti che non coll’Uffizio dellaMadonna ma con grandi fendenti di spada e spuntonate di lancia il buon Goffredo tolse dalle mani dei Saracini il sepolcro di Cristo.
– Sia ringraziato Iddio! – sclamò il giovinetto. – Ora non resta nulla a che fare.
– Come non resta nulla? – gli diede sulla voce il vecchio. – Sappi, o disgraziato, che gli infedeli riconquistarono la Terra Santa e che ora che parliamo un bascià del Sultano governa Gerusalemme, vergogna di tutta Cristianità.
– Pregherò il Signore che cessi una tanta vergogna –soggiunse Orlando.
– Che pregare! Fare, fare bisogna! – gridò il vecchio Conte.
– Scusate – s’intromise a dirgli la Contessa. – Non vorrete già pretendere che qui il nostro bimbo faccia da sé solo una crociata.
– Eh via! non è piú bimbo! – rispose il Conte. – Compie oggi appunto i dodici anni!
– Compiesse anche il centesimo – soggiunse la signora – certo non potrebbe mettersi in capo di conquistare la Palestina.
– Non la conquisteremo piú finché si avvezza la prole a donneggiare col rosario! – sclamò il vecchio pavonazzo dalla bile.
– Sí! ci voleva anche questa bestemmia! – riprese pazientemente la Contessa. – Poiché il Signore ci ha dato un figliuolo che ha idea di far bene mostriamocene grati collo sconoscere i suoi doni!
– Bei doni, bei doni! – mormorava il Conte. – Un santoccio leccone!... un mezzo volpatto e mezzo coniglio!
– Infine egli non ha detto questa gran bestialità; –soggiunse la signora – ha detto di pregar Iddio perché egli consenta che i luoghi della sua passione e della sua morte tornino alle mani dei cristiani. È il miglior partito che ci rimanga ora che i cristiani son occupati a sgozzarsi fra loro, e che la professione del soldato è ridotta una scuola di fratricidii e di carneficine.
– Corpo della Serenissima! – gridò il Conte. – Se Sparta avesse avuto madri simili a voi, Serse passava leTermopili con trecento boccali di vino!
– S’anco la cosa andava a questo modo non ne avrei gran rammarico – riprese la Contessa.
– Come? – urlò il vecchio signore – arrivate persino anegare l’eroismo di Leonida e la virtù delle madri spartane?
– Via! stiamo nel seminato! – disse chetamente ladonna – io conosco assai poco Leonida e le madri spartane benché me le venghiate nominando troppo sovente; e tuttavia voglio credere ad occhi chiusi che le fossero la gran brava gente. Ma ricordatevi che abbiamo chiamato dinanzi a noi nostro figlio Orlando per illuminarci sulla sua vera vocazione, e non per litigare in sua presenza sopra queste rancide fole.
– Donne, donne!... nate per educar i polli – borbottava il Conte.
– Marito mio! sono una Badoera! – disse drizzandosi la Contessa. – Mi consentirete, spero, che i polli nella nostra famiglia non sono piú numerosi che nella vostra icapponi.
Orlando che da un buon tratto si teneva i fianchi scoppiò in una risata al bel complimento della signora madre; ma si ricompose come un pulcino bagnato all’occhiata severa ch’ella gli volse.
– Vedete? – continuò parlando al marito – finiremo col perdere la capra ed i cavoli. Mettete un po’ da banda i vostri capricci, giacché Iddio vi fa capire che non gli accomodano per nulla; e interrogate invece, come è dicevole a un buon padre di famiglia, l’animo di questo fanciullo.
Il vecchio impenitente si morsicò le labbra e si volse al figliuolo con un visaccio sí brutto ch’egli se ne sgomentí e corse a rifugiarsi col capo sotto il grembiale materno.– Dunque – cominciò a dire il Conte senza guardarlo, perché guardandolo si sentiva rigonfiare la bile.
– Dunque, figliuol mio, voi non volete fare la vostra comparsa sopra un bel cavallo bardato d’oro e di velluto rosso, con una lunga spada fiammeggiante in mano, e dinanzi a sei reggimenti di Schiavoni alti quattro braccia l’uno, i quali per correre a farsi ammazzare dalle scimitarre deiTurchi non aspetteranno altro che un cenno della vostra bocca?
– Voglio cantar messa io! – piagnucolava il fanciullo di sotto al grembiule della Contessa. Il Conte, udendo quella voce piagnucolosa soffocata dalle pieghe delle vesti donde usciva, si voltò a vedere cos’era; e mirando il figliuol suo intanato colla testa come un fagiano, non ebbe piú ritegno alla stizza, e diventò rosso piú ancor di vergogna che di collera.
– Va’ dunque in seminario, bastardo! – gridò egli fuggendo fuori della stanza.
Il cattivello si mise allora a singhiozzare e a strapparsii capelli e a dar del capo nelle gambe della madre, sicuro di non farsi male. Ma costei se lo tolse fra le braccia e lo consolava con bella maniera dicendogli:– Sí, viscere mie; non temere; ti faremo prete; canterai messa. Oh non sei fatto tu, no, per versare il sangue de’ tuoi fratelli come Caino!...
– Ih! ih! ih! voglio cantar in coro! voglio farmi santo!– strepitava Orlando.
– Sí... canterai in coro, ti faremo canonico, avrai il sarrocchino, e le belle calze rosse; non piangere tesoro mio. Sono tribolazioni queste che bisogna offerirle al Signore per farsi sempre piú degni di lui – gli andava dicendo la mamma.
Il fanciullo si consolò a queste promesse; ed ecco perché il conte Orlando, in onta al nome di battesimo e a dispetto della contrarietà paterna, era divenuto monsignor Orlando.

lunedì 27 giugno 2011

lezioni di stile 2: il canonico (prima parte)

Il Conte aveva un fratello che non gli somigliava per nulla ed era canonico onorario della cattedrale di Portogruaro, il canonico piú rotondo, liscio, e mellifluo che fosse nella diocesi; un vero uomo di pace che divideva saggiamente il suo tempo fra il breviario e la tavola, senza lasciar travedere la sua maggior predilezione per questa o per quello. Monsignor Orlando non era stato generato dal suo signor padre coll’intenzione di dedicarloalla Madre Chiesa; testimonio il suo nome di battesimo.L’albero genealogico dei Conti di Fratta vantava una gloria militare ad ogni generazione; cosí lo si aveva destinato a perpetuare la tradizione di famiglia. L’uomo propone e Dio dispone; questa volta almeno il gran proverbio non ebbe torto. Il futuro generale cominciò la vita col dimostrare un affetto straordinario alla balia, sicché non fu possibile slattarlo prima dei due anni. A quell’età era ancora incerto se l’unica parola ch’egli balbettava fosse pappa o papà. Quando si riescí a farlo stare sulle gambe, cominciarono a mettergli in mano stocchi di legno ed elmi di cartone; ma non appena gli veniva fatto, egli scappava in cappella a menar la scopa col sagrestano. Quanto al fargli prendere domestichezza colle vere armi, egli aveva un ribrezzo istintivo pei coltelli da tavola e voleva ad ogni costo tagliar la carne col cucchiaio. Suo padre cercava vincere questa maledetta ripugnanza col farlo prendere sulle ginocchia da alcuno de’ suoi buli; ma il piccolo Orlando se ne sbigottiva tanto, che conveniva passarlo alle ginocchia della cuoca perché non crepasse di paura. La cuoca dopo la balia ebbe il suo secondo amore; onde non se ne chiariva per nulla la sua vocazione. Il Cancelliere d’allora sosteneva che i capitani mangiavano tanto, che il padroncino poteva ben diventare col tempo un famoso capitano. Ma il vecchio Conte non si acquietava a queste speranze; e sospirava, movendo gli occhi dal viso paffutello e smarrito del suo secondogenito ai mostaccioni irti ed arroganti dei vecchi ritratti di famiglia. Egli avea dedicato gli ultimi sforzi della sua facoltà generativa all’ambiziosa lusinga d’inscrivere nei fasti futuri della famiglia un grammaestro di Malta o un ammiraglio della Serenissima; non gli passava pel gozzo di averli sprecati per avere alla sua tavola la bocca spaventosa d’un capitano delle Cernide. Pertanto raddoppiava di zelo per risvegliare e attizzare gli spiriti bellicosi di Orlando; ma l’effetto non secondava l’idea. Orlando faceva altarini per ogni canto del castello, cantava messa, alta bassa e solenne, colle bimbe del sagrestano; e quando vedeva uno schioppo correva a rimpiattarsi sotto le credenze di cucina. Allora vollero tentare modi piú persuasivi; si cominciò a proibirgli di bazzicare in sacristia, e di cantar vespri nel naso, come udiva fare ai coristi della parrocchia. Ma sua madre si scandolezzò di tali violenze; e cominciò dal canto suo a prender copertamente le difese del figlio. Orlando ci trovò il suo gusto a far la figura del piccolo martire: e siccome le chicche della madre lo ricompensavano dei paterni rabbuffi, la professione del prete gli parve piucchemai preferibile a quella del soldato. La cuoca e le serve di casa gli annasavano addosso un certo odore di santità; allora egli si diede ad ingrassare di contentezza e a torcer anche il collo per mantenere la divozione delle donne. E finalmente il signor padre colla sua ambizione marziale ebbe contraria l’opinione di tutta lafamiglia. Perfino i buli che tenevano dalla parte della cuoca, quando il feudatario non li udiva, gridavano al sacrilegio di ostinarsi a stogliere un San Luigi dalla buona strada. Ma il feudatario era cocciuto, e soltanto dopo dodici anni d’inutile assedio, si piegò a levare il campo e a mettere nella cantera dei sogni svaniti i futuri allori d’Orlando.
(... continua)

Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano

domenica 26 giugno 2011

lezioni di stile 1: il cancelliere

Per solito il Cancelliere era l’ombra incarnata del signor Conte. S’alzava con lui, sedeva con lui, e le loro gambe s’alternavano con sí giusta misura che pareva rispondessero ad una sonata di tamburo. Nel principiare di queste abitudini le frequenti diserzioni della sua ombra avevano indotto il signor Conte a volgersi ogni tre passi per vederese era seguitato secondo i suoi desiderii. Sicché il Cancelliere erasi rassegnato al suo destino, e occupava la seconda metà della giornata nel raccogliere la pezzuola del padrone, nell’augurargli salute ad ogni starnuto, nell’approvare le sue osservazioni, e nel dire quello che giudicava dovesse riuscirgli gradito delle faccende giurisdizionali. Per esempio se un contadino, accusato di appropriarsi le primizie del verziere padronale, rispondeva alle paterne del Cancelliere facendogli le fiche, ovverosia cacciandogli in mano un mezzo ducatone per risparmiarsi la corda, il signor Cancelliere riferiva al giurisdicente che quel tale spaventato dalla severa giustizia di Sua Eccellenza avea domandato mercé, e che era pentito del malfatto e disposto a rimediare con qualunque ammenda s’avesse stimato opportuna. Il signor Conte aspirava allora tanta aria quanta sarebbe bastata a tener vivo Golia per una settimana, e rispondeva che la clemenza di Tito deve mescolarsi alla giustizia dei tribunali, e che egli pure avrebbe perdonato a chi veramente si pentiva. Il Cancelliere, forse per modestia, era tanto umile e sdruscito nel suo arnese quanto il principale era splendido e sfarzoso; ma la natura gli consigliava una tale modestia perché un corpicciuolo piú meschino e magagnato del suo, non lo si avrebbe trovato cosí facilmente. Dicono che si mostrasse guercio per vezzo; ma il fatto sta che pochi guerci aveano come lui il diritto di esser creduti tali. Il suo naso aquilino rincagnato, adunco e camuso tutto in una volta, era un nodo gordiano di piú nasi abortiti insieme; e la bocca si spalancava sotto cosí minacciosa, che quel povero naso si tirava alle volte in su quasi per paura di cadervi entro. Le gambe stivalate di bulgaro divergevano ai due lati per dare la massima solidità possibile ad una persona che pareva dovesse crollare ad ogni buffo di vento. Senza voglia di scherzare io credo che detratti gli stivali la parrucca gli abiti la spada e il telaio delle ossa, il peso del Cancelliere di Fratta non oltrepassasse le venti libbre sottili, contando per quattro libbre abbondanti il gozzo che cercava nascondere sotto un immenso collare bianco inamidato. Cosí com’era egli aveva la felice illusione di credersi tutt’altro che sgradevole; e di nessuna cosa egli ragionava tanto volentieri come di belle donne e di galanterie.
Come fosse contenta madonna Giustizia di trovarsi nelle sue mani io non ve lo saprei dire in coscienza. Mi ricorda peraltro di aver veduto piú musi arrovesciati che allegri scendere dalla scaletta scoperta della cancelleria. Cosí anche si buccinava sotto l’atrio nei giorni d’udienza che chi aveva buoni pugni e voce altamente intonata e zecchini in tasca, facilmente otteneva ragione dinanzi al suo tribunale. Quello che posso dire si è che due volte sole m’accadde veder dare le strappate di corda nel cortile del castello; e tutte e due le volte questa cerimonia toccò a due tristanzuoli che non ne aveano certamente bisogno. Buon per loro che il cavallante incaricato dell’alta e bassa giustizia esecutiva, era un uomo di criterio, e sapeva all’uopo sollevar la corda con tanto garbo che le slogature guarivano alla peggio sul settimo giorno. Perciò Marchetto cognominato il Conciaossi era tanto amato dalla gente minuta quanto era odiato il Cancelliere. Quanto al signor Conte nascosto, come il fato degli antichi, nelle nuvole superiori all’Olimpo, egli sfuggiva del pari all’odio che all’amore dei vassalli. Gli cavavano il cappello come all’immagine d’un santo forestiero con cui avessero poca confidenza; e si tiravano col carro fin giù nel fosso quando lo staffiere dall’alto del suo bombay gridava loro di far largo mezzo miglio alla lontana.

(Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano, cap. 1)

sabato 25 giugno 2011

l'albero innamorato



Inamorato pruno
già mai non vidi, come l'altr'ier uno.

Su la verde erba e sotto spine e fronde
giovinetta sedea
lucente piú che stella.
Quando pigliava il prun le chiome bionde,
ella da sé il pignea
con bianca mano e bella;
spesso tornando a quella,
ardito piú che mai fosse altro pruno.

Amorosa battaglia mai non vidi,
qual vidi, essendo sciolte
le trecce e punto il viso.
Oh quanti alor in me nascosi stridi
il cor mosse piú volte,
mostrando di fuor riso,
dicendo nel mio aviso :
— Volesse Dio ch'io diventasse pruno! —

(Francesco Sacchetti, 1335?-1440)

venerdì 24 giugno 2011

non so a voi...

... ma a me un libro così mi ispira fiducia, anche solo a guardarlo.

giovedì 23 giugno 2011

Pierpaolo Faggiano, giornalista precario



Non avevo mai conosciuto Pierpaolo Faggiano, ma sapevo che avevamo alcune cose in comune.
Eravamo quasi coetanei (lui 41 anni, io 36), e tutti e due pugliesi. Io emigrato, lui rimasto lì, a Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi, dove aveva fondato e diretto il Ceglie Open Jazz Festival. O meglio, l'aveva diretto finché il Comune aveva deciso di tagliargli i fondi, tenendosi però il marchio, perché Pierpaolo non l'aveva registrato e quindi, pur essendo suo, non gli apparteneva. Ne parlai qui, a suo tempo. (Ah, ed ecco un'altra cosa che avevamo in comune: non riuscire proprio a capire le logiche del mercato; forse, non volerle capire).
Poi, ovviamente, c'era l'amore per il jazz. Pierpaolo Faggiano collaborava con AllAboutJazz, era membro della Sidma (la Società Italiana di Musicologia Afroamericana), aveva pubblicato un libro-intervista a Mario Schiano che era anche una storia del nostro free jazz ("Un cielo di Stelle", Manifestolibri 2003). E scriveva anche per la "Gazzetta del Mezzogiorno": pubblicista, vale a dire giornalista di fatto, ma non di stipendio.
L'altroieri, martedì 21 giugno, primo giorno d'estate, il fratello di Pierpaolo, tornando a casa, l'ha trovato impiccato ad un albero del giardino. Pare abbia lasciato un biglietto d'addio: una delusione amorosa, ma soprattutto la vergogna di non avere, a 41 anni, un vero lavoro.
Sì, lo so, in quella situazione ce ne sono tanti, e non tutti si suicidano. Tanti tirano avanti, nonostante tutto. Non voglio fare retorica. Anzi, credo che davanti alla morte si debba soprattutto tacere.
Però non posso fare a meno di pensare a Pierpaolo come a un fratello che non ho mai conosciuto.
Oggi, sui giornali, la sua vita è tutta riassunta in due parole: giornalista precario.


mercoledì 22 giugno 2011

dulcinee


"Sa Dio se nel mondo viva o no Dulcinea, se sia fantastica o no; queste non sono cose la cui verificazione si abbia a fare a rigore".

Miguel de Cervantes, Don Chisciotte, II, 23

lunedì 20 giugno 2011

amarcord (e buona musica)

... quando nei programmi per bambini suonava Dizzy;




... quando i sax sparavano;




... quando si faceva comicità con nulla;




... quando le dive si prestavano a far ridere (ma non portavano il reggipetto);




... quando tra bouzouki e bazooka la differenza era sottile, ma importante.

domenica 19 giugno 2011

lampi - 146


Mi rifiuto di credere di essere io, quello.

sabato 18 giugno 2011

una strada in uno strano mondo



http://www.youtube.com/watch?v=jqrKejQTynk


Un uomo scende in strada
Dice: Perché adesso sono molle qui al centro
Il resto della mia vita è così duro
Ho bisogno di un momento storico
Voglio una foto della redenzione
Non voglio finire come un cartone animato
In una tomba da cartone animato
Scavaossa scavaossa
Cani al chiaro di luna
Lontana la mia porta ben illuminata
Signor Pancia-di-birra
Scaccia via da me questi idioti
Sai non la trovo più divertente questa roba

Se sarai la mia guardia del corpo
Io sarò il tuo amico perduto da tempo
Io posso chiamarti Betty
E Betty quando mi chiami
Puoi chiamarmi Al

Un uomo scende in strada
Dice: Perché sono così a corto di attenzione
Ho avuto un po' di attenzione
E oh, le mie notti sono così lunghe
Dov'è mia moglie e la mia famiglia
E se morissi qui?
Chi sarà il mio modello
Ora che il mio modello è
Andato, andato
Se l'è svignata giù per il vicolo
Con qualche ragazzina grassoccia dalla faccia di pipistrello
Per tutto il tempo
Ci sono stati incidenti e accidenti
Ci sono state allusioni e accuse

Se sarai la mia guardia del corpo...

Un uomo scende in strada
È una strada in uno strano mondo
Forse è il Terzo Mondo
Forse è la prima volta che lui è in giro
Non parla la lingua
Non ha denaro con sé
È uno straniero
È circondato dai rumori
Bestiame al mercato
Vagabondi e orfanotrofi
Si guarda intorno
Vede angeli nell'architettura
Roteano nell'infinità
Dice Amen e Alleluia

Se sarai la mia guardia del corpo...

venerdì 17 giugno 2011

senso e passione


Il più sublime lavoro della poesia è dare senso e passione alle cose insensate.

Giambattista Vico, "Principi di scienza nuova", XXXVII

giovedì 16 giugno 2011

precedenze

"Prima fammelo suonare, poi te lo spiego".
(Miles Davis)





mercoledì 15 giugno 2011

lampi - 145


Un fortissimo bisogno di Ottocento.

martedì 14 giugno 2011

sondaggio d'opinione


Vorrei presentare tre poesie ad un concorso. Dato che il bando specifica che i testi possono essere "editi o inediti", ho pensato di spedire qualcosa tratto da "Topografia della solitudine", il mio diario newyorkese in versi, uscito l'anno scorso per Fara Editore, che mi sembra la cosa migliore che io abbia mai scritto.
E dato che, in fondo, le poesie sono tutte figlie mie, e le figlie sono pezzi di cuore, sono riuscito a restringere la scelta a sei, ma non oltre. E qui entrate in ballo voi, miei venticinque fedelissimi, ai quali chiedo di indicarmi le vostre tre preferite.
Votate, votate, votate: ci sarebbe tempo fino a fine luglio, ma considerando che a luglio probabilmente sarò in giro per il mondo, diciamo che avete una decina di giorni per esprimere le vostre preferenze.
Questi sono i testi.



70, WASHINGTON SQUARE SOUTH



Difficile guardare
guardare e basta. Si cercano sempre scampoli
di significato familiare
anche nel catrame unto di fumo salato
o nella luce che rimbalza a ferirti
nel primo attraversamento di Madison Avenue. E invece
bisognerebbe che tutto fosse indifferente.
La mente è una trappola.
Lo scoiattolo si affaccia alla finestra
e guarda dall’alto l’incastro dei rumori
la luce gli sfina la coda
e tutta New York è un piano inclinato di intersezioni
e alleanze.
Il giorno finiva sempre all’imbocco della strada
anche se durava ancora al vertice

e il non capire aiutava
si era nudi come nei sogni
che ti tradiscono il respiro tra le costole.
Eri un atlante le membra sparpagliate
nessuno a ostacolarti il circolo
virtuoso dei pensieri
l’impigliarsi trionfante sempre nello stesso
crocicchio la combustione gioiosa.

* * *

GRAND CENTRAL STATION

Da che mondo è mondo, tutti si cerca un fastidio
un sassolino tra le lenticchie
solo così si scoperchia la solitudine
si getta un piccolo uncino sulla pelle dei passanti.
Chiunque è capace di premere la carne dura
o persino di divaricarla
ma vorrei vedervi alle prese con questa roba molle
insomma l’anima
o come la chiamate.
C’è sempre da qualche parte qualcuno che intubato
sente cedere la lenza
capisce che è finita.

* * *

SOTTO NEW YORK

si dice, c’è la città dei topi.
Io avevo trovato un ingresso
sulla 76esima West, nel muro del ripostiglio.
Dell’ospite ho visto le mani
(una volta) e l’orma dei denti sul biscotto.
Era uno dal sangue veloce
io dormivo radente alle sirene
lui limava la notte attorno alle lenzuola.
Finì che gli otturai la tana
non c’era dialogo possibile
tra la sua fame e la mia.

* * *

Y.M.C.A.

Con tutte quelle persone
il gioco era scivolare sulle vite nel passaggio
dalla terra al grattacielo
assecondare gli spigoli

era affondare in Greenpoint come in una cruna
aspettare l’eco dei rumori
sgominare la matassa cercare l’unica
voce umana.
Un’altra sosta era la curva del corridoio
(the hallway) dove si attraversava l’odore di olio bruciato

anche lì si trattava di cercare l’angolo giusto
che ti avrebbe rivelato la fenditura.
Questo, piuttosto che le liste di appuntamenti (schedule)
o l’euforia della luce piena a Washington Square

(lì molti si sono gettati
dall’ultimo piano fin nel vuoto lucido
e ora tutto è transennato
i vetri puliti i libri a portata di mano

ma ci sono momenti che la carne vive
sotto i tavoli ad esempio
o nel movimento di compressione necessario
a raggiungere gli scaffali più bassi).

Come amavo l’umiltà delle schiene nude
i piedi in fila le maree degli odori.

* * *

EAST HOUSTON STREET


Downtown è già abbastanza triste
senza bisogno di trombe sordinate.
Un mare di piombo sigilla le linee prospettiche.
Rasoterra si smarrisce l’organizzazione formale
e le rette perpendicolari cedono il posto ai detriti.
E allora meglio
la vernice gonfia l’odore stremato del ferro caldo e della gomma
lo stridore paziente delle cremagliere

i tunnel non conducono alle Madri
solo a pozze di pioggia isole di canto

si ha sempre la sensazione di essere più giovani
di quanto si dovrebbe.

* * *

LUNGO BROADWAY

New York, tutto sommato, è stata
una topografia della solitudine.
Vorrei insistere sui luoghi di passaggio
sulle ragazze portoricane che aspettano
con la ringhiera stampata dietro le cosce.
Un giorno probabilmente qualcuno è stato qui
a guardare con la camicia aperta sul petto
la faccia corrosa dal sole
quando l’odore era ancora quello della corda tesa
e del catrame caldo.
Ma è passato molto tempo: chi sospira viene subito nascosto
solo la spazzatura si esibisce
la fermentazione trionfante
la fame futura.
Non riesco a credere ai colori autunnali di Central Park
né ai suoi scoiattoli.

Eppure ci dovrebbe essere ancora qualcuno ad aspettare
per scremare il latte bollito tirare ago e filo tra i denti asciugare il lavello
prima o poi i grattacieli saranno secchi come vecchie ossa

e ci saranno voci snelle corpi trapassati dalla morte
che torneranno ad occupare l’orizzonte
asseconderanno i colori
consumando lenti fuochi nelle gole trasparenti.

lunedì 13 giugno 2011

recensioni in pillole 117* - "Stria"

Gigi Simeoni, Stria, Sergio Bonelli Editore, giugno 2011 (320 pp., 9 €)

È sempre il solito, vecchio discorso: non importa cosa, ma chi e come.
Detto altrimenti: si può ancora parlare dell'adolescenza? Si può raccontare dei primi amori, dello sfigato escluso dal gruppo, di quanto sia crudele e violenta quell'età che, con il (dis)senno del poi, ci sembra tanto bella?
Sì, si può, a patto di saperlo fare. E Simeoni lo sa fare.
Gigi Simeoni è, attualmente, uno dei più bravi autori (autore completo: sceneggiatura e disegni) nell'ambito del fumetto “popolare” italiano. E metto “popolare” tra virgolette, capirete poi perché. “Stria” è il quinto dei “Romanzi a fumetti”, volumoni autoconclusivi che la Sergio Bonelli Editore va pubblicando, con cadenza variabile, da qualche anno a questa parte. Nella stessa serie, Simeoni aveva già pubblicato nel 2007 il bellissimo “Gli occhi e il buio”, thriller psicologico dall'ambientazione insolita (la Milano belle époque, ricostruita con grande finezza).
“Stria” potrebbe sembrare un horror con venature gialle. La trama: Chiara è una hostess, soffre di allucinazioni che rischiano di portarla alla follia; Fabio è un fotoreporter di guerra, (apparentemente) abituato ad affrontare ogni tipo di orrore. Quando si incontrano, scoprono di avere qualcosa in comune: un trauma che entrambi hanno rimosso, ma che si ricollega a un'oscura leggenda, raccontata da secoli tra le valli bresciane.
E già qui l'opera sarebbe molto ben riuscita. Simeoni costruisce una trama perfetta: un giallo che si rivela e ribalta nel finale e un horror che gioca in modo magistrale sui toni dell'orrido e dell'angoscioso. Ma, all'interno di questa che è in tutto e per tutto un'opera "di genere”, si inserisce anche una vicenda psicologica di coming of age, di inclusione/esclusione dal gruppo. Che trae ancora più forza dall'essere inserita nel contesto di un fumetto “popolare” (e qui, forse, avrete capito perché uso le virgolette).
Molti hanno citato lo Stephen King di “It”: io, confesso, King non l'ho mai letto, quindi non mi pronuncio. Dico solo che ho il massimo rispetto per la letteratura di genere e che preferisco una solida narrazione a un'onfaloscopia masturbatoria.
Per finire, i disegni sono efficaci, senza una sbavatura, senza strafare in virtuosismi tecnici. E la storia è ambientata, Deo gratias, in Italia, e non nell'ennesima cittadina della provincia americana, da cui il nostro immaginario sembra essere ormai colonizzato senza rimedio.
Insomma: chapeau.

* P.S.: Accogliendo un suggerimento di Antonio, considero a tutti gli effetti i “booktrailer” di qualche post fa come “recensioni in pillole” ufficiali, che quindi vengono ad impegnare i numeri dal 105 al 116.

domenica 12 giugno 2011

lampi - 144


C'è qualcosa di più ingiusto che trovarsi a un passo dalla bellezza e non poterla toccare?

sabato 11 giugno 2011

pensateci, domani



Io ho una tecnica.
Quando partecipo a una riunione,
mi siedo, tiro fuori la pistola e la poggio sul tavolo.

È solo una tecnica,
la uso per vivere in pace coi miei simili.
Ma devo darmi delle regole.

La prima regola è estrarre subito la pistola.
Devo estrarla appena arrivo.
Non vorrei che qualcuno pensasse
che la tiro fuori per la piega che ha preso il discorso.

La seconda regola è non guardare mai la pistola.
È una regola fondamentale.
Altrimenti qualcuno potrebbe pensare
che io cerchi di sostenere il mio discorso
facendo ricorso a un’intimidazione.
Ammiccando alla pistola con lo sguardo,
come a dire «State attenti che sparo!»
La pistola non dev’essere oggetto di discussione.

Infatti la terza regola è non parlare mai della pistola,
altrimenti il discorso apparirebbe ridondante.
Qualcuno penserebbe
che se ho bisogno di ricordare agli altri che ho una pistola
è perché senza la pistola
il mio discorso non sarebbe altrettanto convincente.

Ovviamente questo silenzio sulla pistola
non significa che io non stia pensando alla pistola
perché la quarta regola è
pensare costantemente alla pistola.

Ma non è un pensiero generico,
un ricordo personale,
un’immagine sfumata.
Si tratta di un pensiero preciso.
Sempre lo stesso.

Io penso alle camere cilindriche che alloggiano le cartucce,
alla pressione sul grilletto che inarca il cane
e contemporaneamente fa ruotare il tamburo,
che bascula in senso orario.
Io penso al cane che, giunto nel punto morto,
ovvero alla sua massima estensione,
si abbatte sull’innesco della cartuccia
e fa partire il colpo.

Io ho una tecnica.
Quando partecipo a una riunione,
mi siedo, tiro fuori la pistola e la poggio sul tavolo.

Ovviamente qualcuno potrebbe credere che,
nonostante queste mie regole,
l’attenzione nei miei confronti
derivi esclusivamente dalla pistola che metto in mostra,
che i miei interlocutori siano influenzati dalla pistola.

Allora per cancellare ogni dubbio
ho incominciato a tenerla in tasca.
Alcuni sanno della pistola,
ma col tempo incomincio a incontrare nuovi interlocutori
che ignorano la presenza della pistola.

La tecnica funziona lo stesso.
Ovviamente devo modificare la prima regola,
cioè non posso più estrarre la pistola
appena mi metto seduto.

Ma la prima regola non è stata completamente abolita.
Semplicemente, mi limito a pensare alla pistola
che ho nella tasca.

Dunque potrei dire che
ho una nuova tecnica.
Quando partecipo a una riunione,
mi siedo e penso alla pistola.

Il resto non cambia.

La possibilità di tenere la pistola in tasca
senza l’obbligo di estrarla,
per me è stata una rivoluzione.
Ora gli effetti benefici della pistola
possono essere sfruttati ovunque
e non soltanto durante una riunione.

Senza mai guardare la pistola,
senza parlarne e senza mostrarla,
posso pensarci costantemente.

Anche quando incontro per le scale il mio vicino di casa,
il colonnello in pensione,
o quando vado al bar a prendere un caffè,
o quando parlo con mia moglie.

Io mi confronto con l’umanità,
la guardo in faccia,
penso alla pistola
e accade una sorta di magia,
un cambiamento nella mia percezione del mondo.

Tutti gli esseri che mi circondano
si trasformano immediatamente in bersagli.
Non che io li colpisca davvero, io non sono un violento.
Ma la possibilità di farlo me li mostra come sagome.
Sagome immobili o in movimento,
sagome parlanti, ma comunque sagome.
Ognuna col suo bersaglio
disegnato sulla fronte o attorno al cuore.

Incontro il colonnello in pensione
che esce dall’ascensore con le sporte della spesa
«Al supermercato il mercoledì fino a mezzogiorno
c’è lo sconto per i pensionati»,
dice mostrandomi le porcherie che si compra.
Io lo aiuto a portare la spesa fino al portoncino blindato.
Penso alla pistola nella tasca,
guardo il bersaglio,
sorrido e auguro buona giornata.

Scendo a prendere un caffè,
il barista con le mani a mollo nell’acqua del lavandino
e una macchia marrone sulla camicia bianca
chiede «Cosa desidera?»
Io penso alla pistola nella tasca,
guardo il bersaglio,
sorrido e dico «Un caffè ristretto, grazie».

Mia moglie mi parla dell’estratto di corteccia di betulla
per combattere le smagliature sui glutei.
Io penso alla pistola nella tasca,
guardo il bersaglio,
sorrido e le massaggio il culo.

Se non estraggo la pistola e non colpisco il bersaglio
è solo per una mia scelta,
ma la possibilità di farlo mi dà un grande sollievo.

Avere l’alternativa!
L’alternativa di sparare sul colonnello in pensione
facendolo esplodere tra le sue porcherie a metà prezzo,
far saltare la testa al barista,
colpire il culo flaccido di mia moglie,
il culo unto di corteccia di betulla.

Io ho una tecnica.
Tengo sempre la pistola in tasca.
Non ne parlo, non la mostro,
ma ci penso costantemente.

Una volta ho fatto un esperimento.
Ho volutamente lasciato la pistola nel cassetto del comodino
e sono uscito di casa.

Sulle scale ho incontrato il colonnello in pensione.
Arrancava, con le sporte della spesa piene di porcherie.
«Si è rotto l’ascensore», ha detto, «proprio oggi
che è mercoledì e ho fatto la spesona».
Sudava.
Il sudore gli scendeva sulla faccia grassa,
la camicia era macchiata di sudore.
Due grosse macchie sotto le ascelle e una sulla pancia.
«Si è rotto l’ascensore!» diceva,
mentre io cercavo il bersaglio senza trovarlo.
Senza pistola non hai alternative,
devi fare conversazione.

Sono corso al bar,
ho pensato «mi prendo un caffè e mi passa l’agitazione».
Il barista stava con le mani a mollo nell’acqua sporca.
Quando mi ha visto entrare
si è asciugato sulla parannanza incrostata
e mi ha chiesto «Cosa desidera?»
«Un caffè?» ho risposto come se fosse una domanda,
come se fossi stato io a chiederlo a lui.
Ha spalancato la lavastoviglie
e ha tirato fuori un mucchio di tazzine bollenti.
Le ha accatastate sulla macchina del caffè,
gli ha fatto fare uno sbuffo di vapore
e con la mano ancora bagnata mi ha dato la tazzina.
Senza una pistola non hai alternative,
devi prendere un caffè.

Sono corso a casa.
Mia moglie ha aperto la porta con i capelli bagnati,
l’asciugamano sulle spalle e la tinta in mano.
«Si vede la ricrescita?»
ha chiesto mostrandomi i capelli grigi.
E io cercavo il bersaglio in quella testa mezza colorata,
ma c’erano solo i capelli ancora impastati di balsamo.
Senza una pistola non hai alternative,
devi guardare la ricrescita.

Così sono corso in camera
ho preso la pistola dal cassetto
l’ho stretta forte in mano considerando il freddo del ferro,
la pesantezza del pezzo.
Poi me la sono messa in tasca.

Mia moglie mi ha raggiunto.
Con i capelli gocciolanti sapone sulle orecchie
ha detto «Cos’hai?»

Io l’ho guardata pensando
alle camere cilindriche che alloggiano le cartucce,
alla pressione sul grilletto che inarca il cane
e contemporaneamente fa ruotare il tamburo,
che bascula in senso orario.
Pensavo al cane che, giunto nel punto morto,
ovvero alla sua massima estensione,
si abbatte sull’innesco della cartuccia
e fa partire il colpo.

Ho risposto «Niente cara, ora sto meglio»,
e sulla sua fronte è ricomparso il bersaglio,
il cerchietto colorato con un pallino nel centro.

Io vi vedo in televisione,
vi leggo sui giornali,
politici, banchieri, presidenti di consigli d’amministrazione.
Io so perfettamente a cosa state pensando.

Qualsiasi discorso facciate, dalla giustizia all’immigrazione,
dall’economia alla costituzione,
voi pensate sempre alla stessa cosa:
alla pistola che tenete in tasca.

È per questo motivo
che ci guardate come un mucchio di sagome.
È per questo motivo che fate discorsi a mano armata.

Ascanio Celestini (da "Io cammino in fila indiana")





http://www.youtube.com/watch?v=Vy_-z6dvdtQ

venerdì 10 giugno 2011

lampi - 143


Non ho passato una vita a costruire la mia asocialità, per poi rovinare tutto con un merengue.

giovedì 9 giugno 2011

ore


Capita anche a voi di avere momenti favoriti, nel corso della giornata? Momenti, intendo, in cui il vostro corpo si ingrana con la tinta dell'aria, l'umidità dell'atmosfera, la pressione barometrica, la forza e l'inclinazione dei raggi solari, l'intensità del vento, la totalità dei rumori e delle immagini che vi circondano, insomma con la musica delle sfere?
Io per esempio adoro l'alba, quel momento in cui le cose riemergono dalla tenebra come le sommità degli alberi nel defluire di un'alluvione; il cielo diventa, tutto d'un tratto, perfettamente bianco, l'aria si popola di piume e di fischi, e se è estate si sente il tepore mai del tutto spento che torna a riprendere forza, mentre se è inverno il gelo azzanna le parti di pelle scoperta con una crudeltà che, se la si sa assaporare, può risultare persino piacevole.
Invece odio la mattina, l'aggirarsi indaffarato, la schiavitù degli orari, il tornare a casa stanchi, mangiare in fretta per zittire l'appetito, recuperare le forze, combattere il torpore.
Adoro il pomeriggio. Il primo pomeriggio d'estate, enorme e silenzioso, quando il caldo mi intride di allegria (sì, ho bisogno di sole e di caldo per sentirmi del tutto a mio agio; temperature che stroncano gli altri, rendono me attivo e reattivo al massimo grado); oppure il pieno pomeriggio all'inizio della primavera, quando l'aria ancora paralizzata dal freddo comincia a mostrare le prime crepe, nelle quali si insinuano brezze tiepide e odori struggenti, che regalano le prime promesse di pelle nuda; o ancora il tardo pomeriggio, specialmente d'estate, sulla spiaggia, quando il cielo sembra spremere le ultime gocce di luce per colorarsi di un azzurro quasi inverosimile e l'aria si fa tutta uno sfolgorio dorato.
Odio certi pomeriggi d'inverno, umidi, immobili, ritorti su sé stessi sotto l'assalto del buio, ostaggi di quella stessa luce murcida, cadaverica, che a volte avvelena i sogni più angosciosi. (E tuttavia esiste un antidoto: richiede un letto, una scorta generosa di coperte e piumoni e una persona con cui condividerli, dalla cui pelle ci separi la minima quantità possibile di strati di stoffa).
E odio la sera, l'oscurità che tracima a stingere i colori, annegarli in un'agonia di grigio. Per me è l'ora dello spleen, dei pensieri pesanti e macerati, l'ora che dura fino al dopocena.
Poi, quando tutti i rumori si sono spenti, quando tutti in casa dormono e tutte le preoccupazioni del giorno sono narcotizzate ed inermi, allora inizia la notte. E allora il cervello mi si risveglia, la mente accede a un superiore livello di agilità e lucidità, le idee si lasciano possedere docilmente, parole e immagini fluiscono senza sforzo.
Il mio nemico è il sonno, che mi ruba ore di vita consegnandomi a un'esistenza subdola, incontrollabile, dalla quale emergono larve lattescenti, che mi visitano e poi scompaiono lasciando tracce viscide, indelebili.

mercoledì 8 giugno 2011

martedì 7 giugno 2011

ne nimium


I saggi conoscono la loro soddisfazione per mezzo di piccoli desideri.

Nāgārjuna, Mahāprajñāpāramitā-śāstra

lunedì 6 giugno 2011

lampi - 142


“Non sono mica più giovane come tre mesi fa”.

domenica 5 giugno 2011

lampi - 141


Be careful with subjective statements.

sabato 4 giugno 2011

lampi - 140


Quanto ci vorrebbe (pensa intanto lui) per recuperare l'assuefazione? Per riuscire di nuovo a vivere al Sud?

venerdì 3 giugno 2011

lampi - 139


Felicemente sradicato.

giovedì 2 giugno 2011

lampi - 138


Se.
E come.
E, soprattutto, perché.

mercoledì 1 giugno 2011

bisogni indotti


La scuola è l'agenzia pubblicitaria che ti fa credere di avere bisogno della società così com'è.

Ivan Ilich