domenica 31 luglio 2011

la pelle e il sole


"Je veux que tu connaisses ce frisson de froidure qui inquiète la peau, quand l'ombre d'un regard l'isole du soleil".
(François Bourgeon)

sabato 30 luglio 2011

una forma di gelosia


Ti sei addormentata ancora nuda
adesso il tuo torace si muove lentamente
lo sento appoggiandoti le mani sulla pelle
penso al fiato veloce di prima
che era tuo e nostro insieme
mentalmente faccio la differenza
per capire quanta parte del tuo respiro
sia dedicata a me.

Francesco Tomada

giovedì 28 luglio 2011

tre poesie di alexis diaz pimienta


Nel giardino pubblico

Una giovane ha appena accavallato le gambe
E il poeta spera che il vento sia suo complice.
Sorveglia irrispettosamente l'orlo del vestito,
l'unica strada verso la felicità.
La giovane sorride, estranea all'importanza della sua coscia
parlando di profumi o ragazzi o promesse.
E il vento soffierà
- di fronte a tanta insistenza soffierà –
ma la vera fortuna sta nel fatto che la mano della giovane
scenda in tempo, e la sua pelle continui ad essere possibile.

* * *

Nella piscina dell'Hotel Siviglia

Quella ragazza dalla pelle scura,
quella che bacia e abbraccia lo straniero,
con le sue trecce false, Cuba pura
che scola birra Hatuey e usa sincera

accento, gergo e arti di terra dura,
l'arrangiarsi di poveri quartieri;
quella ragazza con la vita tesa
come un violino in preda ai desideri;

quella ragazza con la notte accesa
su tutto il corpo, che tiene distesa
tutta quell'ombra sul sole d'Europa;

quella ragazza ignora che io esisto,
che le scrivo un sonetto, e che la vesto
di versi in rima, mentre lui la spoglia.

* * *

Dagli occhi di un bambino

Dagli occhi di un bambino decollano gli aeroplani.
Se chiudesse gli occhi cadrebbero.
Solo la sua meraviglia li mantiene sospesi,
la sua piccola mano li fa alzare,
il suo cuore li muove e li allontana.
Senza un bambino appiccicato ai vetri,
alle alte ringhiere di una terrazza adulta,
gli aeroporti morirebbero di orrore.
Un bambino non potrà mai pronunciare
la parola "aeronautica".
ma da lui dipenderà l'imitazione dell'uccello.
Un bambino non saprà calcolare le distanze
ma lui è la garanzia del ritorno.
Ogni aeroporto deve avere un bambino
appiccicato ai vetri,
vicino agli altoparlanti, dovunque si annidi
la paura.
Grazie a lui causerà meno lacrime il rientro di tutti,
soffrirà meno baci l'addio delle madri
e le hostess potranno evitare avvisi insulsi.
Un aeroplano nell'aria
sono molti i bambini che guardano l'orizzonte.

mercoledì 27 luglio 2011

questo eterno transitare

AMICO: Voi parlate, a quanto pare, un poco ironico. Ma dovreste almeno all'ultimo ricordarvi che questo è un secolo di transizione.

TRISTANO: Oh che conchiudete voi da cotesto? Tutti i secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione, perché la società umana non istà mai ferma, né mai verrà secolo nel quale ella abbia stato che sia per durare. Sicché cotesta bellissima parola o non iscusa punto il secolo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i secoli. Resta a cercare, andando la società per la via che oggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizione che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peggio. Forse volete dirmi che la presente è transizione per eccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato della civiltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal caso chiedo licenza di ridere di cotesto passaggio rapido, e rispondo che tutte le transizioni conviene che sieno fatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevissimo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado a grado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la natura non va a salti, e che forzando la natura, non si fanno effetti che durino, Ovvero, per dir meglio, quelle tali transizioni precipitose sono transizioni apparenti, ma non reali.

AMICO: Vi prego, non fate di cotesti discorsi con troppe persone, perché vi acquisterete molti nemici.

TRISTANO: Poco importa. Oramai né nimici né amici mi faranno gran male.

AMICO: O più probabilmente sarete disprezzato, come poco intendente della filosofia moderna, e poco curante del progresso della civiltà e dei lumi.

TRISTANO: Mi dispiace molto, ma che s'ha a fare? se mi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.

Giacomo Leopardi, "Dialogo di Tristano e di un amico" (dalle Operette Morali)

martedì 26 luglio 2011

non mi ricordo più il mare



Testo di Roberto Roversi, musica di Gaetano Curreri (1984)


Se vuoi toccare sulla fronte il tempo che passa volando
in un marzo di polvere di fuoco
e come il nonno di oggi sia stato il ragazzo di ieri
Se vuoi ascoltare non solo per gioco il passo di mille pensieri
chiedi chi erano i Beatles
chiedi chi erano i Beatles

Se vuoi sentire sul braccio il giorno che corre lontano
e come una corda di canapa è stata tirata
o come la nebbia inchiodata tra giorni sempre più brevi
Se vuoi toccare col dito il cuore delle ultime nevi
chiedi chi erano i Beatles
chiedi chi erano i Beatles

Chiedilo a una ragazza di quindici anni di età
chiedi chi erano i Beatles
e lei ti risponderà
La ragazzina bellina col suo naso garbato
gli occhiali e con la vocina
ma chi erano mai questi Beatles?
Lei ti risponderà

I Beatles non li conosco
neanche il mondo conosco
sì sì conosco Hiroshima
ma del resto ne so molto poco
ne so proprio poco
Ha detto mio padre l'Europa bruciava nel fuoco
dobbiamo ancora imparare
noi siamo nati ieri
siamo nati ieri

Dopo le ferie di Agosto non mi ricordo più il mare
non mi ricordo la musica
fatico a spiegarmi le cose
per restare tranquilla scatto a mia nonna le ultime pose
ma chi erano mai questi Beatles
ma chi erano mai questi Beatles?

Voi che li avete girati nei giradischi e gridati
voi che li avete aspettati e ascoltati
bruciati e poi scordati
voi dovete insegnarci con tutte le cose non solo a parole
chi erano mai questi Beatles
ma chi erano mai questi Beatles?

Perché la pioggia che cade è presto asciugata dal sole
un fiume scorre su un divano di pelle
ma chi erano mai questi Beatles?
Le auto hanno brusche fermate le radio private
mettono in onda la nebbia e le vecchie paure
chi erano mai questi Beatles?

Di notte sogno città che non hanno mai fine
sento tante voci cantare
e laggiù gente risponde
Nuoto tra onde di sole e cammino nel cielo del mare
ma chi erano mai questi Beatles
ma chi erano mai questi Beatles?

lunedì 25 luglio 2011

sarebbe comico...

... se non fosse vero.

domenica 24 luglio 2011

facebook e la poesia che offende




(di Natàlia Castaldi, da Poetarum Silva)

"[...] Nei giorni scorsi (circa due settimane fa) qualcuno ha segnalato come “offensivi” alla redazione di Facebook tutti i link delle Edizioni Smasher, con il conseguente risultato che nessun utente su tale piattaforma possa più linkare, diffondere, pubblicizzare contenuti, che rimandino al sito della suddetta Casa Editrice.

Le Edizioni Smasher e i suoi autori si sentono profondamente danneggiati e offesi da quello che ritengono un attacco giustificabile solo con la piena e consapevole volontà di danneggiare il lavoro da essi svolto, ed hanno, pertanto, ripetutamente segnalato l’ingiustizia e l’infondatezza di tale segnalazione allo Staff di Facebook, senza ottenere alcuna risposta.

Insomma, la solerte Redazione di facebook si prende la briga di accogliere indiscriminatamente qualunque segnalazione e, quindi, di bannare l’oggetto (o, peggio, il soggetto!) della stessa, ma non si cura minimamente di verificare la fondatezza di quanto le venga segnalato, né tantomeno di rispondere alla richiesta di spiegazioni da parte di chi, ingiustificatamente, si ritrovi discriminato e bannato [...]".

(leggi l'intero articolo qui)

su una mail non arrivata



Che tu non mi abbia ancora scritto
lo prendo come un pegno un credito
di gioia da riscuotere. Ho arredato
intere giornate con keepsakes come questo
ho imparato a masticare l'assenza
a vegliare le stimmate.

sabato 23 luglio 2011

lampi - 150


Dire "io" senza doversene vergognare.

venerdì 22 luglio 2011

"Accipe filium tuum..." (seconda parte)


L’uomo pensò se fosse meglio arrabbiarsi o lasciar perdere. Poi rivide tutte le loro discussioni e il ragazzo che a un certo punto lo piantava in asso e tornava a rinchiudersi in camera, limitandosi ad alzare il volume dello stereo se lui urlava più forte. Lasciò perdere e si concentrò sul notiziario.
Sbarchi di clandestini in Puglia. Rapina in gioielleria: ferito l’esercente e due clienti. Il governo promette: più rigore contro la criminalità. Venti di guerra in Medio Oriente. Mibtel in ripresa. Stangata fiscale. Le nuove collezioni primavera-estate. L’oroscopo.
Lo speaker passò poi a commentare una manifestazione tenuta il giorno prima in una città vicina. Una folla di persone, stimata in varie migliaia, aveva sfilato per le strade scandendo slogan e agitando striscioni. Gruppi di facinorosi avevano provocato le forze di polizia, che si erano viste costrette a caricare il corteo. Erano seguiti scontri, protrattisi nel corso della giornata. Numerosi gli arresti, parecchi feriti tra i manifestanti. Danni a negozi e abitazioni. La dinamica dei fatti era al vaglio degli inquirenti.
“Ma li senti? – ridacchiò il padre – La fame, dovevano fare, come hanno fatto i tuoi nonni per tirar su quattro figli. Con il nonno che faceva notte in officina e tuo zio che ci sbucciava una mela e ci raccontava le storie di Sandokan e di Rin Tin Tin e la nonna che andava casa per casa a fare le faccende. Li volevo vedere, questi figli di papà con le scarpe firmate e la paghetta in tasca! E pure te, che vai in giro con i capelli che sembrano tagliatelle e i pantaloni che dentro ci balli il twist!”.
“Papà, – fece il ragazzo con voce atona – per favore…”.
“Per favore cosa? Lo sai che diceva stamattina in ufficio il direttore? Che lui lo sgozzerebbe come un capretto un figlio così, prima di saperlo in giro a fare a botte con la polizia e a spaccare le vetrine! Come un capretto, porca miseria!”.
Poi si accorse di stare urlando; gli avventori di un’edicola si erano voltati e lo guardavano con aria allarmata.
“Scusa, sai, – riprese quando si fu calmato – lo so che non c’entri niente, tu. Scusami”.
A un semaforo, gli si avvicinò un nordafricano. Il padre chiuse il finestrino e finse di non vederlo, ma l’uomo gli tamburellava e cercava di convincerlo, più con i gesti che con le parole, a farsi lavare il vetro. Il padre negava energicamente scuotendo la testa e agitando entrambe le mani.
Quando l’altro fece per appoggiargli sul parabrezza lo straccio umido, imprecò in dialetto e mandò avanti l’auto di qualche centimetro. Il lavavetri scattò all’indietro, poi cominciò a lamentarsi rumorosamente e a saltellare tenendosi un piede fra le mani. Ma il semaforo diventò verde. Il padre partì sgommando e lanciò un insulto all’uomo, che dallo specchietto vedeva ancora gesticolare, impalato tra le automobili che gli sfrecciavano intorno.
“Ma l’hai visto? No, l’hai visto? Neanche toccato! Neanche sfiorato quel cazzo di piede!”. Ansimava e sudava copiosamente per la rabbia.
Poi, rivolto al figlio che non dava segni di reazione:
“Oh, dico a te! L’hai visto? Ma che cazzo vogliono? Ma perché non se ne tornano nelle capanne, ‘sti stronzi?”
Il ragazzo aveva uno sguardo strano; non si capiva se lo stesse osservando con attenzione o fosse perso dietro qualche suo pensiero.
“Sì, ti pare che sua maestà si scompone… Che poi chiudono in casa le mogli e vengono a violentarci le donne e a vendere la droga ai giovani. Bastardi! Ma te li ricordi gli agnelli squartati?”.
Si riferiva a un viaggio in Egitto di vari anni prima, una vacanza-premio con i colleghi d’ufficio. Era Eid al-Adha, la Festa del Sacrificio, e davanti a ogni casa era appeso un agnello ucciso di fresco, con il sangue che gocciolava in pozze nere sul selciato. Il figlio, allora bambino, aveva pianto giorni interi per quello spettacolo, che era stato oggetto di indignate discussioni tra i turisti.
“Commemorano Abramo, – disse il figlio – il sacrificio di Isacco. Il padre disposto a sacrificare il figlio per obbedire alla Legge Divina”.
“Sì, la legge… Gliela darei io la legge. Occhio per occhio, ecco la legge. E tutti indietro al loro paese! Marsc!”.
Erano ormai usciti dalla città; mancava poco a casa. La campagna splendeva dei primi colori autunnali, piatta e uguale a perdita d’occhio. Il padre guidava veloce, superando con rapidi scarti laterali le macchine di anziani pensionati che tornavano lentamente alle loro villette, sparse nei piccoli sobborghi lungo la statale, ognuna con il proprio giardino sul retro, dove crescevano poche stente verdure e qualche albero tisico.
Ogni tanto incrociavano delle prostitute, alcune ferme in piedi al bordo della strada, altre sedute sul guard-rail, altre ancora chine a cogliere cicorie come contadine al lavoro. Qualcuna usciva, rassettandosi i vestiti, da una macchina parcheggiata in un viottolo laterale.
Erano quasi le due. Intorno tutto era deserto, calato in una quiete opprimente.
“Papà, – disse a un tratto il ragazzo – c’ero anch’io ieri”.
“Dove?” chiese il padre, senza capire.
“C’ero anch’io in mezzo al corteo. Non ero a Verona con la scuola. La polizia ci ha caricato e io mi sono rifugiato in un portone. Poi sono scappato, cadendo mi sono sbucciato le mani e le ginocchia e ho preso una manganellata. I miei compagni li hanno arrestati. Io non ho picchiato nessuno, ero lì con gli amici e mi sono trovato in quel casino”.
“Tanto lo avresti saputo, prima o poi”, aggiunse dopo una pausa.
Il padre aveva frenato di colpo, in mezzo alla strada. Lo guardava con gli occhi sbarrati, stringendo il volante fino a farsi diventare bianche le mani.
Poi scese, fece il giro della macchina e aprì l’altro sportello. Trascinò fuori per i capelli il figlio, senza quasi che facesse resistenza. Lo spinse al bordo della strada e gli appoggiò la testa su un basso muretto di recinzione. E nessun angelo scese a fermare la mano del padre quando, afferrato un sasso appuntito, colpì la testa del figlio, finché non si mosse più.

giovedì 21 luglio 2011

"Accipe filium tuum..." (prima parte)


L’uomo al volante tirò fuori dalla tasca un fazzoletto di carta e cominciò ad asciugarsi il sudore. Rovesciava da una parte all’altra la grossa testa cubica, per raggiungere la nuca e le spalle; poi gettò il kleenex dal finestrino, si aggiustò la giacca e ingranò la prima.
Avanzò con brevi colpi di clacson tra la calca di zaini e giubbotti colorati. Il fuoristrada, tutto nero e luccicante di cromature, somigliava a un grosso iroso tricheco in mezzo al suo harem.
Il ragazzo salì in macchina, gettò lo zaino sul sedile posteriore e iniziò a digitare fitto fitto sul cellulare.
“Ciao, eh?”, disse il padre.
“Ciao”, rispose il figlio senza spostare gli occhi dai tasti.
L’uomo aggrottò le sopracciglia e fece per replicare; poi guardò lo specchietto e approfittò di un varco per immettersi nel traffico.
Il sole ancora estivo arroventava gli abitacoli delle macchine, disposte in una lunghissima fila segmentata dai semafori. Faceva pensare a una immensa mandria in migrazione, dorso contro dorso, verso qualche punto dell’orizzonte offuscato dai fumi di scarico. Il fuoristrada avanzava a passo d’uomo, con scatti improvvisi per infilare la corsia che scorreva più rapida.
Il ragazzo completò il suo sms, lo spedì e aspettò il trillo di risposta, quindi prese un libro dallo zaino e si mise a leggerlo.
“Non leggere in macchina, che ti fa male. Ti cavi gli occhi”.
“Sì”, rispose il figlio; ma continuò la sua lettura.
Per una decina di minuti si sentì solo il motore, sordo sulle marce basse, impennato in ringhi acuti quando l’uomo calcava nervosamente sul gas. Il ragazzo teneva la testa sul libro; ogni tanto sbirciava gli altri automobilisti, che guidavano fissando l’auto davanti alla loro, le camicie sudate e le facce deformate dal rancore.
“Allora, la gita com’è andata? – riprese il padre – Non ti ho neanche sentito rientrare, ieri”.
Il ragazzo fece un vago cenno con il capo, seguito da un mugolio di commento.
“Toccherà parlare con i prof per quei lividi. Possibile che non c’era nessuno a sorvegliarvi?”.
“Papà. – fece il ragazzo, e finalmente si voltò a guardarlo – Ho diciott’anni”.
“Diciott’anni!! – esclamò il padre, e rise rumorosamente – Ma mi scusi, signoria! Oh, ciccio…”.
Fece per dargli un pizzicotto sul fianco, ma il figlio si scansò bruscamente, rivolgendogli uno sguardo di fuoco e contraendo per un attimo il viso in una strana smorfia.
“Diciott’anni! – continuò senza dar segno di aver colto il movimento – A diciott’anni tuo nonno ancora mi correva dietro se la domenica gli rubavo le paste dal vassoio! E sapessi i ceffoni che mollava!”. Poi stette in silenzio per qualche minuto, con un’espressione allegra sul viso accaldato.
Il ragazzo osservava le strade in cui la gente si affrettava verso casa gettando all’indietro improvvisi sguardi da bestia inseguita; altri aspettavano l’autobus, immobili come tronchi secchi nell’aria rovente; una donna era seduta sotto la pensilina, a occhi chiusi, con la faccia rugosa e contratta che ricordava quella di un neonato.
Addossata al muro, una vecchia chiedeva l’elemosina, la testa da mater dolorosa rovesciata su una spalla e una mano abbandonata sulla coscia, con il palmo all’insù. Dal grembo le era sfuggito un ragazzino dai capelli chiari, simili a stoppa sudicia, che ora se ne stava accoccolato sull’orlo del marciapiede e osservava quel che rimaneva di un piccione schiacciato: una chiazza nera e grommosa sull’asfalto, da cui spuntavano una zampa e qualche ciuffo scomposto di penne. Si vedevano anche luccicare parti di interiora, puntolini rosso vivo come braci o chicchi di melagrana.
“E poi, – ricominciò il padre – una gita a scuola appena iniziata. Ma c’era bisogno?”.
Poiché il figlio non dava segni di voler rispondere, si rassegnò a continuare da solo. L’avevano vista, almeno, la casa di Giulietta? Bella, eh? Lo sapeva che era lì che si erano fidanzati lui e la mamma? Anche loro in gita al liceo, ed era stata lei che gli aveva chiesto di farle una foto mentre toccava la tetta della statua. E quel manichino del professore di italiano che chiacchierava, chiacchierava… e i secchioni della classe con il castello di Verona che ci batte il sole a mezzogiorno… Sì, ma ormai nemmeno le studiavano più queste poesie... Solo che loro due si erano persi, e tutti lì a cercarli mentre loro se ne stavano su una panchina davanti all’anfiteatro a… Oh, mica si scandalizzava?
Intanto erano usciti dalle vie affollate del centro e percorrevano i viali grigi della periferia, dove le massaie ritardatarie tornavano a casa cariche di spesa, con l'andatura triste e dondolante degli animali da soma. Ogni tanto passavano anche delle donne africane, avvolte in larghe tuniche variopinte da cui sporgeva, nuda, una spalla nera e lucida. Anche loro portavano enormi buste gonfie di pane e di verdura; incrociandosi si mostravano l’un l’altra i denti bianchi in un larghissimo sorriso e rimanevano a parlare per interi quarti d’ora, con le voci forti e acute che rimbombavano nelle strade ormai semivuote.
Il padre accese l’autoradio e cercò un notiziario.
“E le elezioni? Non era oggi che eleggevano i rappresentanti di istituto? Ti hanno eletto…”.
“No”, rispose secco il ragazzo.
“Ma come?! Ma perché?”, fece il padre, e lo guardava con un misto di ira e di sgomento, due file di rughe disegnate ad arco sulla fronte sudata.
Il ragazzo fece spallucce.
“Non ti sei candidato! Non ti sei voluto candidare perché c’era il tuo amico, il marocchino… Assed… Ussud…”.
“Assad. È libanese”.
“Senti, bello di papà – e ora nella sua voce c’era una piega amara di delusione –. È ora che ti svegli. Mors tua vita mea. Lo sai che i prof hanno un occhio di riguardo per i rappresentanti, no?”.
“Che cosa credi di aver concluso con questo bel gesto? – riprese, cercando stavolta un’intonazione più pacata – Pensi che quello adesso ricambierà? No, ciccio, quello adesso se la ride. E magari ti chiama pure minchione. Pensi che sarei diventato vicedirettore se mi lasciavo pestare i piedi dal primo arrivato? Io ci ho lasciato la pelle delle chiappe, in ufficio!”.
E qui cominciò una lunga descrizione dei suoi colleghi, che nella mente del figlio si trasformavano in strani esseri, metà uomo metà pescecane, con la tintarella sempre fresca e i sorrisi tirati a lucido, con vestiti firmati e uffici tappezzati di lauree e di master americani. Le donne gli apparivano invece altissime, inerpicate su tacchi vertiginosi come tante cicogne, con le bocche rosso sangue tese fino alle orecchie in smorfie mostruose. Le vedeva incedere per gli uffici con lunghe falcate da compasso, o dimenare le natiche come giumente in calore di fronte ai dirigenti. Il padre lanciò uno sguardo in tralice al ragazzo: ora si arrotolava intorno al dito una ciocca di capelli biondicci, che spuntavano dal berretto avvolti in treccioline rasta. Durante tutto il discorso non aveva aperto bocca, poi si era rituffato nel suo libro. Cercò di sbirciare il titolo, ma riusciva a leggere solo le prime sillabe del nome.
“Ma che, ha scritto un libro, Naomi Campbell?”.
Il ragazzo si voltò, gli rivolse appena un’occhiata e tornò a raggomitolarsi sul sedile, immergendosi ancora di più nella lettura.

(...continua)

mercoledì 20 luglio 2011

20.07.2001


Dieci anni. Me ne rendo conto solo adesso.
Dieci anni fa ero davanti alla tv a guardare una città in fiamme. Provavo sgomento, orrore.
Oggi riguardo quelle foto. C'è un ragazzo col passamontagna e un idrante in mano. Che sta facendo? Ha ragione? Sì, ha ragione, senza dubbio, anche se forse in quel momento sta sbagliando.
Qualche metro più in là c'è un altro ragazzo, anche più giovane del primo, che sta per premere il grilletto e macchiarsi di un omicidio. Ha ragione? No, ha torto, anche se forse non è colpa sua se si trova lì, in quel momento, con quella pistola in mano.
Io non me la sento di condannare nessuno dei due. Provo ancora orrore.
Qualche ora dopo, i diritti civili saranno cancellati, Genova per qualche ora si trasformerà nel Cile di Pinochet, i tutori dell'ordine in belve. Lo Stato chiuderà gli occhi. Ancora non li ha riaperti.
Intanto, i Grandi della Terra parlavano. Stanno ancora parlando. Noi proviamo ancora orrore. Nel mondo si muore di fame, sete, malattie e ingiustizia.
Niente di nuovo sotto il sole.

P.S.: all'epoca scrissi un racconto. Rileggendolo, mi rendo conto che non è niente di che; ma nei prossimi giorni lo ripubblicherò, così come l'ho scritto allora, senza cambiare nulla.
Ad futuram rei memoriam
.

meglio amarti


Se mi propongo di scriverti una poesia d'amore
il foglio si coprirà di sabbia
o cenere o pozzanghere.
Meglio amarti
e ancora nudi
raccomandarti i versi di qualche altro poeta
che non ti ami.

Alexis Diaz Pimienta

martedì 19 luglio 2011

lampi - 149


Il dolore della lontananza (e quello della vicinanza).

lunedì 18 luglio 2011

down oxford road


“Che strano sorriso
vive per esserci e non per avere ragione”
(Milo De Angelis)

(per E.)

Non c'è nell'assedio dei pensieri una giustizia
non in un pomeriggio come questo
dove è difficile distinguere pioggia e memoria
e io accolgo i tuoi occhi come rondini stanche
le tue parole come un popolo di specchi.
È un gioco crudele
far combaciare le ferite ma capire
è sanguinare è offrire intera
la guancia all'agguato

l'abbraccio non nascerà domani è adesso
l'unica possibile saggezza.
Lo vedi siamo qui con il tempo alla gola nessuno
giustificherà il quoziente nessuno

ci perdonerà la vita.

domenica 17 luglio 2011

home at last



Sono state due settimane intense.
Ho vagabondato per l'Europa, preso aerei e treni, conosciuto persone intelligenti e persone noiose, ho parlato del mio lavoro e ho ascoltato altri parlare del loro. Ho fatto qualche progetto per il prossimo futuro.
Ho rivisto amici vecchi e nuovi, chiacchierato dei massimi sistemi (e anche dei minimi), dormito poco, pensato molto, mangiato perlopiù male, scritto qualche poesia, parlato in lingue che non credevo di saper parlare.
Ho sperimentato escursioni termiche brutali: da un buio, freddo, piovoso luglio inglese, a una timida estate svizzera, fino a questa soverchiante calura italiana.
Mi sono reso conto di quanto certi paesi siano più civili del nostro, e di come il nostro potrebbe essere bello, se solo volessimo. Mi sono incazzato parecchio. (By the way, ho sempre più voglia di scappare dall'Italia, questo va specificato. E non è detto che prima o poi non lo faccia.)
Ho anche sentito la mancanza di mia moglie e dei miei figli, molto più dolorosamente di quanto avrei immaginato. Ho rimesso ordine tra le mie priorità esistenziali e capito un po' di cose su me stesso e sugli altri, e su me stesso rispetto agli altri.
Ho capito che il tempo che abbiamo a disposizione è davvero poco e che forse bisogna solo cercare di essere felici, come e quando si può.
Comunque, sono tornato.
Ci si riaggiorna presto.

sabato 16 luglio 2011

lampi - 148


In un paese civile, l'arte dovrebbe dare pane. E anche companatico.

giovedì 14 luglio 2011

economia dei ricordi



Sarà un sintomo certo (ma di cosa?)
ti penso sempre staccata su schianti
di spuma fredda
sempre di spalle poi sempre verso
un indaco di burrasca

e il gesto è quello bloccato appena prima di concedere
la curva dello zigomo. Ti penso per metà
disegnata da un vento angolare
per metà perduta nel panneggio
e anche questo – certo – andrebbe
tenuto in conto però

intanto qui è stagione di frastuono di piccole ferite
quel poco che regge debbo adoperarlo bene
sarà per questo che ti penso dove
non siamo stati
che non aspetto di raggiungerti che come nei sogni la fine
non arriva mai.

lunedì 11 luglio 2011

lezioni di stile 4 - eros

Martino prese su un lume e mi condusse al mio nuovo domicilio per quei lunghissimi giri di scale e di corritoio che mi parvero in quella sera non dover piú finire. Egli mi raccomodò il letticciuolo in un angolo di quello stanzino che era nulla piú d'un sottoscala; m'aiutò a svestirmi e mi compose le coltri intorno al collo perché non pigliassi freddo. Io lo lasciava fare, come appunto se fossi un morto; ma quando poi fu partito, e al lume della lucernetta deposta da lui in un cantone vidi le muraglie sgretolate e il soffittaccio sghembato in quel buco da gatti, la disperazione di non essere nella stanza bianca ed allegra della Pisana mi riprese con tal violenza che mi dava pugni e unghiate nella fronte e non fui contento se prima non mi vidi le mani rosse di sangue. In mezzo a quelle smanie sentii grattare pian piano all'uscio, e, cosa naturalissima in un ragazzo, la disperazione cesse pel momento il luogo alla paura.
- Chi è? - diss'io con voce malferma pei singhiozzi che mi agitavano ancora il petto.
L'uscio s'aperse allora e la Pisana, mezzo ignuda nella sua camicina, a piedi nudi, e tutta tremante di freddo, saltò d'improvviso sul mio letto.
- Tu? cosa hai?... cosa fai?... - le dissi io non rinvenendo ancora dalla sorpresa.
- Oh bella! ti vengo a trovare e ti bacio, perché ti voglio bene - mi rispose la fanciulletta. - Mi sono svegliata che la Faustina disfaceva il tuo letto, e siccome seppi che non volevano piú lasciarti dormire nella nostra camera, e che ti avevano messo con Martino, son venuta quassù a vedere come stai, e a domandarti perché sei scappato oggi e non ti sei piú fatto vedere.
- Oh cara la mia Pisana, cara la mia Pisana! - mi misi a gridare stringendomela di tutta forza sul cuore.
- Non gridar tanto che ci sentano poi in cucina - rispose ella accarezzandomi sulla fronte. - Cos'hai qui? - la aggiunse sentendosi bagnata la mano e guardandola contro il chiaro del lume. - Sangue, sangue; sei tutto insanguinato!... Hai qui sulla fronte un'ammaccatura che ne getta fuori a zampilli!... Cos'hai fatto? sei forse caduto o hai dato in qualche spino?
- No, non fu nulla... è stato contro la merletta della porta - risposi io.
- Bene, bene; comunque la sia, lascia far a me a guarirti - soggiunse la Pisana. E mi mise la bocca sulla ferita baciandomela e succiandomela, come facevano le buone sorelle d'una volta sul petto dei loro fratelli crociati; e io le veniva dicendo:
- Basta, basta, Pisana: ora sto benissimo! non mi accorgo nemmeno piú d'essermi fatto male!
- No, esce ancora un poco di sangue - rispondeva ella, e mi teneva ancora la bocca sulla fronte, serrata con tal forza che non pareva una bambina di otto anni.
Finalmente il sangue fu stagnato, e la vanerella insuperbiva di vedermi tanto beato come era di quelle sue carezze.
- Sono venuta su allo scuro tastando le muraglie - la mi disse - ma dabasso sono a cena, e non avea paura che mi scoprissero. Ora poi che ti ho guarito, mi tocca scender ancora perché non mi trovino per le scale.
- E se ti trovassero?
- Oh bella! faccio le viste di sognare!
- Sí; ma mi dispiace quasi, che tu arrischi cosí di buscarti dalla mamma qualche castigo.
- Se dispiace a te, a me non importa, anzi mi piace - ella rispose con un atto di vezzosa superbietta, squassando la testa all'indietro per liberarsi la fronte dai capelli disciolti che la avevano ingombra. - Vedi! tu mi piaci piú di tutto, e quando poi non hai indosso quella giubbaccia, come sei ora il mio Carlino, che ti veggo proprio tal qual sei, mi piaci tre volte tanto!... Oh! perché non ti mettono le belle cose che aveva oggi intorno mio cugino Augusto!...
- Oh me ne procurerò di quelle belle cose! - io sclamai. - Le voglio ad ogni costo!
- E dove le prenderai? - mi chiese di rimando.
- Dove, dove!... lavorerò per guadagnar danari, è coi danari, dice Germano, che si può aver tutto.
- Sí, sí, lavora! lavora! - mi disse la Pisana. - Io allora ti vorrò bene sempre piú! Ma perché non ridi ora?... Eri tanto allegro poco fa!
- Vedi un po' se rido? - soggiunsi io giungendo la mia bocca alla sua.
- No, cosí non ti posso vedere!... Via, lasciami! Voglio guardarti se ridi. Hai capito che ho detto di volerti guardare.
Io la accontentai e feci anche prova di riderle colle labbra, ma giù nel cuore andava pensando qual bene la m'avrebbe voluto intantoché io mi fossi guadagnati quegli arredi da signore.
- Ora sei carino, che mi dai piacere - riprese la Pisana canticchiando con quella sua vocina che mi par ancora di sentirla e mi diletta le orecchie fin dalla memoria. - Addio Carlino; io ti saluto, e vado dabasso prima che non ritorni la Faustina!
- Voglio farti lume io!
- No, no; - soggiunse ella saltando giù dal letto e impedendomi di far lo stesso con una delle sue mani - son venuta allo scuro e tornerò giù come sono venuta.
- Ed io ripeto che non voglio che ti faccia male, e che ti farò lume fin sulla scala.
- Guai a te se ti movi! - la mi disse allora cambiando modo di voce, e lasciandomi libero di movermi, come sicura che il suo cenno avrebbe bastato a farmi star quatto - mi fai andar in collera; ti dico che voglio scendere senza lume! io son coraggiosa, io non ho paura di nulla! io voglio andare come voglio io!
- E se poi ti succede di inciampare, o di perderti pei corritoi!
- Io inciampare o perdermi?... Sei matto?... Non son mica nata ieri!... Addio, addio Carlino. Ringraziami perché sono stata buona di venirti a trovare.
- Oh sí, ti ringrazio, ti ringrazio! - le dissi io, col cuore slargato dalla consolazione.
- E lascia che io ringrazi te; - la soggiunse, inginocchiandomisi vicino e baciuzzandomi la mano - perché seguiti a volermi bene anche quando son cattiva. Ah sí! tu sei proprio il fanciullo piú buono e piú bello di quanti me ne vengono dintorno, e non capisco come non mi castighi mai di quelle malegrazie che ti faccio qualche volta.
- Castigarti? perché mai, Pisana? - io le andava dicendo. - Levati su piuttosto, e lascia che ti faccia lume, che cosí al freddo puoi ammalarti!
- Eh! - sclamò la piccoletta. - Sai pure che io non mi ammalo mai! Prima di andar via voglio proprio che tu mi castighi, e che mi strappi ben bene i capelli per le cattiverie che ho commesse contro di te. - E la mi prendeva le mani mettendomele sulla sua testolina.
- Ohibò! - diceva io ritraendole - piuttosto ti bacerei!
- Voglio che tu mi strappi i capelli! - soggiunse ella riprendendomi le mani.
- Ed io invece non voglio! - risposi ancora.
- Come non vuoi? ed io ti dico che vorrai! - la si mise a strillare. - Strappami i capelli, strappami i capelli, se no grido tanto che verranno qua sopra e mi farò pestare dalla mamma.
Io per acchetarla presi con due dita una ciocca delle sue treccie e me la attorcigliai intorno alla mano, giocarellando.
- Tira dunque, via; tirami i capelli - ella soggiunse un po' stizzita, ritraendo di furia la testa in modo che la mia mano dovette seguirla per non farle troppo male. - Ti dico che voglio esser castigata! - continuò pestando i suoi piedini e le ginocchia contro il pavimento che era di pietre tutte sconnesse.
- Non far cosí, Pisana, che ti guasterai tutta.
- Or dunque strappami i capelli!
Io tirai pian piano quella ciocca che aveva fra le dita.
- Piú forte, piú forte! - disse la pazzerella.
- Cosí dunque - diss'io facendo un po' piú di forza.
- No cosí! piú forte ancora - riprese ella con atto di rabbia. E mentre io non sapeva che fare, la dimenò il capo con tanto impeto e cosí improvvisamente che quella ciocca de' suoi capelli mi rimase divelta fra le dita. - Vedi? - aggiunse allora tutta contenta. - Cosí voglio esser castigata quando lo voglio!... e a rivederci dimani, Carlino; e non moverti di là se no non vengo piú a spasso con te.
Io mi stetti attonito ed immobile con quella ciocca fra le dita mentr'ella guizzò dalla porta e richiuse l'uscio: e poi feci per correrle dietro col lume ma la era già scomparsa dal corritoio. Scommetto che se la sua mamma nel castigarla le avesse strappato uno di quei capelli, ella ne avrebbe strepitato tanto da metter sottosopra la casa ed anche ora mi maraviglia che la sopportasse quel dolore senza batter palpebra; tanto potevano in lei la volontà e la bizzarria infin da bambina. Io poi non so se quei momenti mi fossero piú di piacere o di rammarico. Quell'eroismo della Pisana di venirmi a trovare a traverso gli andirivieni di quella buia casaccia, e ad onta delle punizioni che ne poteano capitarle, m'avea fatto salire al settimo cielo; poscia la sua caparbietà s'era intromessa a tosarmi di molto le ali perché sentiva (dico sentiva, perché a nove o dieci anni certe cose non si capiscono ancora) sentiva, ripeto, che l'immaginativa, e la vanagloria di mostrare un piccolo portento di prodezza, c'entravano piú assai dell'affetto in un tale eroismo. M'era dunque raumiliato d'alquanto dal primo bollore d'entusiasmo, e quei capelli che m'erano rimasti testimoniavano piuttosto della mia servitù che del suo buon cuore verso di me. Tuttavia fin da fanciullo i segni materiali delle mie gioie de' miei dolori e delle mie varie vicende mi furono sempre carissimi; e quei capelli non li avrei dati allora per tutti i bei bottoni d'oro e di mosaico e per le altre dovizie che sfoggiava sulla persona il signor Conte nei giorni solenni.

Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano

sabato 9 luglio 2011

giunge luglio


Giunge luglio per i morti
che sentono nell'assedio
di ogni fiore
una giustizia remota. E un
cappio di carta
rinasce a più non posso
nella storia
della terra, vasta, ripida,
cose e cose, vesti bianche e tarlate,
contadini nascosti
nel frumento. O ancora
più dentro, dovunque urlino
i crisantemi. Facendo la spola
tra i muri della testa e
una chiamata interurbana, questo minuto
viene contato;
e l'urna - delizia anch'essa
dei mescolati magnanimi -
ha detto basta.

Milo De Angelis (da "Millimetri", 1983)

venerdì 8 luglio 2011

ancora su milo de angelis


Rimanendo

Per Franco Fortini

Alcuni, a turno, tracciano figure.
Tu puoi correggerle con il gesso
o cancellarle subito.
Essi hanno denti purissimi, sono giovani.
Puoi osservarli di netto. E puoi - se è giusto -
salvare dei feriti: ogni piaga
e ogni slavina, ogni minimo grammo. E' strana
questa bontà. Tu sarai visto tra molti anni.

Stanno scavando
una buca per il più vile. Con l'occhio
spaventato da sempre, egli implora. E' grasso,
tra poco riceverà la spinta. Ora
tu chiedi che nessuno sputi.
Ogni cosa
avverrà in lealtà e in silenzio.

Ora entri, ancora,
nella palestra, partecipi
alle gare solitarie. Non puoi
più rendere testimonianza;
e i capelli. I vostri diversi capelli. Sicuramente
non puoi. Alcuni ti hanno rimproverato. Alcuni
ti hanno detto: "vieni pure; ma continua
a disegnare, come prima, due colori".
Altri ti hanno detto: "finalmente
sei tra noi". Altri ti hanno detto: "sempre
sei stato tra noi".

Tu sai. Lo sai a bruciapelo: nessuno
completerà il tuo quaderno, né il suo. Forse
le pagine non bastano e l'errore
è straziante. O forse no. Deciderà un cestino,
un preside mai conosciuto. Tu scendi
ancora una volta gli scalini. Guardi
la rete, le finestre alte.

(da "Terra del viso", 1985)

* * *

Semifinale

La Doxa mi chiede per chi voterò. La voce
è di un ragazzo che, dall'altra parte, respira. Non so
quale chiarezza dentro la rovina. Tutto
ritorna qui, confine del luogo. Quel non parlato
di chiodi per terra. Il Professor D'Amato spiegava
un pronome... nemo: nessuno, non nemo: qualcuno.
Nessuno giungerà oltre le vene, è semplice, ragazzi. Qualcuno
è scomparso o comunque non dà notizie. Il postino
mi consiglia di guardare meglio nella buca,
anche in quelle vicine. Guarderò. Neminem
excipi diem: per nessuno giorno ho fatto eccezione.
Morire è dunque perdere anche la morte, infinito
presente, nessun appello, nessuna musica
di una chiamata personale. Oltre le vene che furono rito
e dimora, milligrammo e annuncio, grido infinito
di gioia o di soccorso, nessuno mai
oltre queste vene. E' semplice, ragazzi, nessuno.

(da "Biografia sommaria", 1999)

midnight mood

mercoledì 6 luglio 2011

go marching, louis

Louis "Satchmo" Armstrong
(New Orleans, 4 agosto 1901 - New York, 6 luglio 1971)


He was born poor, died rich, and never hurt anyone along the way.
(Duke Ellington)


domenica 3 luglio 2011

comunicazione di servizio


Se nei prossimi 10-15 giorni questo blog non sarà aggiornato con la solita frequenza, don't panic. Sono vivo e vegeto e in salute, ma sono in giro per conferenze e non so né se/quando avrò la connessione, né se/quando avrò tempo ed energie per aggiornare.
A presto, comunque.

sabato 2 luglio 2011

o tempora! o mores!


"Vi sono ora leggiadre donzelle e giovinotti di garbo le cui mire son tutte volte ai godimenti materiali: le comodità, le feste, le pompe sono loro soli desiderii; sola cura il danaro che provvede d'un lauto e perenne pascolo quei desiderii; perfino il loro spirito non cerca qualche nutrimento che per farsene bello agli occhi della gente, e non provar l'incommodo di dover arrossire. Del resto la mente di costoro non conosce diletti che sieno veramente suoi. Domandate ad essi se vorrebbero esser stati o Scipioni, o Dante, o Galileo; vi risponderanno che i Scipioni e Dante e Galileo sono morti. Per loro la vita è tutto. Ma quando dovranno abbandonarla? Non vogliono pensarci! Non vogliono; dicono essi; io soggiungo che non possono, che non osano. E se l'osassero avrebbero a scegliere fra la pistola, suicidio del corpo, e il fastidio della vita, suicidio dell'anima."

Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano

venerdì 1 luglio 2011

credete e lasciatemi in pace

La fede a' suoi tempi era almeno una idealità una forza un conforto; e chi non aveva il coraggio di soffrire cercando e aspettando, avea la fortuna di sopportare credendo. Ora la fede se ne va, e la scienza viva e completa non è venuta ancora. Perché dunque glorificar tanto questi tempi che i piú ottimisti chiamano di transizione? Onorate il passato ed affrettate il futuro; ma vivete nel presente coll'umiltà e coll'attività di chi sente la propria impotenza e insieme il bisogno di trovare una virtù. Educato senza le credenze del passato e senza la fede nel futuro, io cercai indarno nel mondo un luogo di riposo pei miei pensieri. Dopo molti anni strappai al mio cuore un brano sanguinoso sul quale era scritto giustizia, e conobbi che la vita umana è un ministero di giustizia, e l'uomo un sacerdote di essa, e la storia un'espiatrice che ne registra i sagrifici a vantaggio dell'umanità che sempre cangia e sempre vive. Antico d'anni piego il mio capo sul guanciale della tomba: e addito questa parola di fede a norma di coloro che non credono piú e pur vogliono ancora pensare in questo secolo di transizione. La fede non si comanda; neppur da noi a noi. A chi compiange la mia cecità, e lagrima nella mia vita uno sforzo virtuoso ma inutile che non avrà ricompensa nei secoli eterni, io rispondo: Io sono padrone in faccia agli altri uomini del mio essere temporale ed eterno. Nei conti fra me e Dio a voi non tocca intromettervi. Invidio la vostra fede, ma non posso impormela. Credete adunque, siate felici, e lasciatemi in pace.

Ippolito Nievo, Le confessioni d'un italiano