venerdì 7 settembre 2012

il mostro è lì



di Andrea Inglese

Il quadro si presenta stranamente affollato, le figure sembrano molte, addirittura troppe, tanto che si fa presto a dimenticarle, tutte quante è impossibile tenerle a mente, e pur enumerandole, con l’implacabile cadenza matematica, che isola e definisce, anche in tal caso qualcuna sfugge al conto, si sottrae alla somma finale: quante persone ci sono, in definitiva, raccolte sulla spiaggia, e sparse nell’intero paesaggio? Gli agglomerati di persone in primo piano, veri e propri capannelli, non permettono un conteggio sereno, spuntano sulla sinistra dei copricapo, bisogna spiare gambe, piedi e calzari, e sulla destra l’intrusione discreta, parziale, di un viso.


Se escludiamo la coppia di protagonisti, gli spettatori del dramma – che in realtà voltano ad esso le spalle – potrebbero essere ventidue, ma allargando la visuale a colline, promontori, villaggi ancora ben distinguibili, possiamo aggiungere ventidue ulteriori figure (umane, antropomorfe), ma senza dubbio ne tralascio alcune, le più remote, nascoste nelle pieghe della rocca di sinistra, intorno o appena sotto le due grandi fattorie, mentre è difficile discernere i viventi dalle statue, nel gruppo di figure che popolano, sulla destra, il villaggio e i suoi dintorni, soprattutto se, come accade a me, si osserva il dipinto in un’unica riproduzione, grande quanto una mezza pagina A 4. Non vorrei occuparmi troppo di questa folla, che si comporta in modo imprevedibile e disomogeneo, che non sembra appartenere ad un’unica famiglia, e che comunque, più che come clan o comunità, agisce come moltitudine, animata da divergenti passioni e interessi: alcuni, stremati dal dolore, non riescono a mantenersi eretti, piegano le ginocchia, si torcono a terra, e neppure offrono il volto allo spettatore tanto dev’essere sfigurato e avvilito; altri invece, con schietta impudicizia, ballano e suonano, come ignorando qualsiasi calamità, o proprio per sormontare la minaccia e il ricatto dei lutti a venire, lanciando un esuberante motivo di gioia attraverso le note di bizzarri strumenti a corda e a fiato, che qualche musicologo è in grado di riconoscere come emblemi pittorici di arnesi realmente esistiti, e non capricci di un individuo svagato e talentuoso nel tratto e nel colore. Basterebbe in realtà dedicarsi a queste figure, riunite in bande opposte sulla spiaggia, i sofferenti e i gaudenti, gli stremati e i festeggianti, i malcapitati e gli allegri errabondi, basterebbe lasciarsi trascinare da questa faida emotiva, che alterna come una nenia ipnotica tristizia e gioia, lacrime e risa, spasmi nervosi e passi di danza, basterebbe questo ritmo umano, elementare, per calmare la mente che vuole invece intessere storie, biografie, episodi, ruoli. Ma alle spalle del variopinto gruppo dei ventidue, tre decisive figure campeggiano, anzi quattro, dal momento che una di esse appare duplicata: si tratta di una donna seminuda, di un mostro ingombrante e di un guerriero agile e intraprendente. La donna, come in molti sogni erotici, è legata per le braccia, e offre il suo corpo nudo dai fianchi al petto: una veste bianca, o un prosaico lenzuolo, la avvolge accuratamente, coprendole avambracci e gambe. Il suo sesso appare e scompare, è un suggerimento: la stoffa che le cinge i fianchi si piega verso il basso, all’altezza del pube, in modo tale che il pensiero, vorace, vi insista cieco. Ma è la posa, di completo abbandono, con la testa reclinata sulla spalla destra, gli occhi semichiusi (chi può dirlo?), i seni spinti in fuori, il busto lievemente piegato verso terra, è questa condizione di schiava sessuale, ormai arresa alla giostra di sevizie che l’aguzzino le prepara, è questa spossatezza, che la rende in qualche modo intollerabile allo sguardo, non davvero mai a lungo contemplata dallo spettatore, che preferisce spostare l’attenzione al mostro, il quale campeggia terribile e sconfitto, rovesciato di tre quarti, al centro del quadro. E su di esso, quasi in punta di piedi, con discrezione, l’esecutore al lavoro, il giovane killer armato di sciabola: Perseo.

Di tutte le figure, pur essendo la meno accomodante, quella del mostro è di certo la più fedele: essa si fa guardare in continuazione, raccoglie su di sé l’ostinata curiosità dei vivi, l’indiscrezione degli spettatori, la malagrazia di coloro che altrove, oltre loro stessi, cercano un approdo: un disgraziato episodio da rimirare, appena compassionevoli, con la risaputa sete di rivalsa. Il mostro è lì, perfettamente calato nel suo ruolo di obbrobrio, stolido e pericoloso, eppure in qualche modo dimesso: volge al suo carnefice la giugulare, sprofonda su un fianco, si candida ad essere sempre, consensualmente, ammazzato. Il mostro ha delle strane e fulve barbe, che tutte vibrano sulla parte posteriore del profilo, mentre dalle narici schizza filamenti d’acqua e guarda, con presumibile tristezza, Andromeda: sa che non la vedrà più, che mai l’ha posseduta, che non ha avuto tempo, a causa dei suoi fitti impegni di rapitore, di concedersi un attimo di pace con lei. Perseo è discreto e grazioso: uccide con una disarmante eleganza, tutto piegando il braccio verso di sé, come un tennista che prepara un rovescio, così che la sciabola rimanga per un attimo sospesa dietro la sua nuca, prima di calare, secca, sulla gola del drago acquatico.

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