giovedì 24 aprile 2014

il ritorno dell'orso (esercizio di traduzione) - parte prima



Sto leggendo "The Bear Comes Home" di Rafi Zabor, che passa (e in effetti è) come uno dei più bei romanzi sul jazz mai scritti.
L'autore è un batterista e critico musicale. Cominciò a lavorare al romanzo negli anni Settanta, ne diffuse alcuni capitoli isolati nel 1979, poi lo abbandonò per anni e infine lo completò e pubblicò nel 1997. Da allora, ha scritto un solo altro libro, che a quanto ne so è stato un totale insuccesso.
"The Bear Comes Home" ha per protagonista un orso. Un normale orso, un plantigrado della famiglia degli Ursidi, che vive nella New York degli anni Settanta. L'Orso (così viene chiamato, senza altra specificazione) in realtà non è poi tanto comune, perché ha due particolarità: parla e ragiona come un uomo, e ama il jazz. Anzi, lo suona: per la precisione, è un sassofonista con il culto di Charlie Parker e di Ornette Coleman. Un vero hip-bear, insomma.
Queste le premesse, che danno il pretesto per un acuto (e spesso esilarante) ritratto della subcultura jazzistica newyorkese.
"The Bear Comes Home", che io sappia, non è mai stato tradotto in italiano. Quella che trovate qui sotto è una mia prova di traduzione, tratta dalle prime pagine del libro.
Un altro estratto domani, su queste stesse pagine.


* * *


“Sai”, disse [l'Orso], “non devo nemmeno suonare un mucchio di strana roba fuori tonalità per essere felice. C'è così tanta saggezza nel bebop che basta per una vita intera. Tutte le cose che devi sapere per far funzionare un singolo chorus nel modo giusto. Devi conoscere la vita proprio bene. Per non parlare dello strumento.”
“Tu suoni bene.”
“Lo so che suono bene. Forse non di prim'ordine, non di livello mondiale, ma bravo abbastanza per guadagnarmi da vivere a New York.”
“Hai un bel fraseggio.”
“Certo che ho un bel fraseggio. Gli orsi sono gente piena d'anima e di fantasia. Siamo amichevoli, siamo creativi, e siamo fighi. Ma il mondo,” disse a Jones, “non ci conosce.”
“Io ti conosco.”
“Tu. Certo. Tu mi conosci”. L'Orso si mise il sassofono in bocca ed eseguì degli arpeggi su un tipico cambio d'accordi assassino alla Coltrane fine anni Cinquanta: do maggiore settima, mi bemolle settima, la bemolle maggiore verso si settima, mi maggiore verso sol settima, e concluse su un do risonante, che bemollizzò leggermente per metterlo in risalto. “Prova tu a farlo con le zampe, stronzo. Prova tu a sviluppare un'imboccatura adatta a un grugno. Sì, tu mi conosci. Certo. Saresti capace, tu?”
“Bistecca alla tartara”, disse Jones, ponendogli davanti un piatto di carne trita cruda, ricoperta da una spolverata di paprika e mescolata a spezie verdi fresche. “Sei di un umore schifoso”.
“Scusami”, disse l'Orso. “È che mi sento così frustrato. Vuoi una mano con gli spaghetti?”
“Nah. Grazie”.
“Posso darti una mano con gli spaghetti”.
“Va bene così”. Jones si schiarì la voce e si mise una mano sulla clavicola. “Mi piace cucinare.”
L'Orso suonò delle scale a toni interi mentre Jones sminuzzava cipolle, aglio, peperoncini secchi e prezzemolo. Jones scaldò l'olio d'oliva e ci versò le spezie a soffriggere, tenendo da parte l'aglio. L'Orso passò a dei fraseggi in legato su un re minore dorico e Jones mise dieci pomodori freschi in una pentola d'acqua bollente. “Vuoi andare giù a Woodstock questo fine settimana per suonare un po' con Julius? Julius è forte. Posso chiamare Julius”.
“Sì, Julius è forte”, disse l'Orso, mettendo giù il sax, “ma quando arriva un ospite devo andare in cortile e comportarmi come una bestia”.
“Possiamo andarci”.
“E mi sa che Julius è in Europa questo mese”.
“Buon per Julius”, disse Jones, mettendo l'aglio nella padella e cominciando a pelare i pomodori che aveva estratto dall'acqua con un cucchiaio.
“Già. Buon per Julius. Abbiamo del vino decente in casa?”
“Credo un rosso italiano niente male”.
“Proviamo questo rosso italiano niente male”, disse l'Orso stancamente.

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