martedì 6 maggio 2014

il ritorno dell'orso - esercizio di traduzione (4/prima parte)



Jones si strofinò con l'asciugamano, ma nuove gocce di sudore gli spuntarono sulla fronte: più tardi, lo sapeva, sarebbero gocciolate giù e l'avrebbero accecato. Che senso c'era in un qualsiasi sforzo, un qualsiasi movimento, una qualsiasi flebile contrazione della volontà? Jones sentì la complessa geometria della sua depressione venirgli incontro, la gabbia invisibile che lo teneva a pattugliare la sua porzione d'aria sotto quale segreto comando? Ammiccò alla sua immagine nello specchio e la sua faccia gli restituì lo sguardo, anonima e di aspetto non molto sano nel vetro. Una faccia di troppo al mondo, pensò. Una faccia che ben presto avrebbe potuto non vedere. Colui che fece la mosca fece anche te?
Doveva sbrigarsi o avrebbe fatto tardi per il lavoro al bar e Johnny Coles gli avrebbe fatto passare una di quelle sue giornatine pesanti tutte speciali. Doveva darsi una mossa.
Ma si ritrovò ancora stravaccato sul divano oggi così fragrante di Orso, lo stesso libro non letto aperto in grembo. Jones ricordò il suo cucciolo d'orso di tanti anni prima che sedeva sul pavimento mentre un disco suonava, le spalle arrotondate da quella che sembrava quasi concentrazione umana come se, Jones pensava allora, quella cosa si stesso dando la stessa forma della musica. Anche prima che avesse un qualunque accenno dell'intelligenza che risiedeva lì, Jones poteva quasi sentire il cucciolo che attirava dentro sé la musica, la tonda forma a palla di pelo immobile o dondolante intensamente di fronte agli amplificatori, gli occhi fuori fuoco o fissi su un punto qualsiasi del pavimento mentre Coltrane si bruciava la strada verso Dio su un blues minore o Ornette sollevava il sassofono e secoli di prigionia cognitiva cadevano in polvere senza nessun particolare dramma. Jones era solito testare i gusti della sua nuova bestiola con dischi diversi. Sembrava amare molto Bach e Bird – c'era in lui quella bizzarra quiete, prendeva quel buffo sguardo verso altrove negli occchi – ma mettigli un qualche Mantovani sul piatto e la cosa lasciava il salotto avanzando goffamente sulle quattro zampe. Passa a Mozart o Sonny Rollins e tornava sul tappeto di fronte allo stereo, ad ascoltare guardandosi il retro delle zampe nella luce del sole che pioveva dalle finestre, oppure schiaffeggiava placidamente i granelli di polvere dorati e li guardava roteare nei raggi declinanti del giorno.
Più carino di un cane e forse anche un po' più sveglio, pensava Jones a quei tempi, e non è strana l'esattezza con la quale sembra capire quel che gli dico? Anche se, è vero, a volte, e di solito perversamente, non capiva. Ma che me ne farò di lui quando diventerà più grosso? Non puoi tenere un orso adulto in un appartamento di New York. Dovrò farlo sopprimere con una puntura dal veterinario o regalarlo allo zoo. Jones odiava ammetterlo: nell'isolamento della sua vita a quei tempi, il cucciolo d'orso era diventato il suo amico più intimo. Gli parlava, si confidava, gli raccontava tutto. Un'assurda simbiosi si era sviluppata tra loro; sentiva che era tutto a posto ma pensava che fosse tutto sbagliato. Di notte, notando la particolare stupidità della sua caduta, Jones teneva lunghe conversazioni monologiche con il cucciolo, e qualche volta lui sembrava accennare un sì a qualche punto saliente, o esprimere tacitamente una sfumatura di simpatia con una comprensiva zampata sopra il ginocchio.
So che sono un fallito, gli diceva Jones, ma c'è rimasto qualcosa di buono in me? Il cucciolo gli dava una pacca consolatoria. Era un'idiozia. Poi, se diceva, Dai, tu mi capisci davvero, la cosa sbavava dall'angolo della bocca e cominciava a rosicchiargli la punta delle pantofole.
Metteva il cucciolo al guinzaglio e lo portava fuori nelle sue passeggiate per il quartiere, e incontrava un sacco di belle ragazze in quel modo. È davvero quel che penso che sia? Ma mi prendi in giro! Davvero? Venivano nell'appartamento per un caffè o una birra, ma tutto quel che ne aveva ricavato erano loro che giocavano con l'Orso per ore e ore, tenendolo stretto ai loro girovita divinamente snelli o a quei seni dell'East Village dai capezzoli tesi che premevano le T-shirt o i top, lasciando che quella cosina graziosa mettesse le zampe dove voleva, divertendosi ai suoi grandi umidi baci apparentemente casuali e ridendo persino della sua erezione color rosa intenso.
Se solo avessero saputo.
Cazzo, se solo lui avesse saputo.


(...il seguito domani)

Nessun commento: