lunedì 7 settembre 2015

diario inglese_primo giorno

Domenica 30 agosto

Aeroporto Internazionale dell'Umbria “San Francesco d'Assisi”
Nome pomposo, a cui corrisponde un minuscolo hub sperduto nella campagna umbra, con due gate striminziti da cui partono in media cinque o sei voli al giorno.

Sullo sfondo del Subasio, un aereo muove l'alettone di coda da una parte all'altra, come un enorme coccodrillo bianco che scodinzola.
Una brutta mamma inglese, bionda rubizza e traccagnotta, con un prendisole troppo corto che le sale continuamente su verso le mutande, ha in braccio un bruttissimo bambino di pochi mesi (sì, esistono anche i bambini brutti), gonfio e urlante.
Una bimba con un vestitino a fiori fa i capricci sdraiandosi per terra. Ogni tanto, come fanno i bambini, si dimentica di piangere perché si è incantata a guardare qualcosa. Il padre, più giovane di me, una cascata di riccioli biondi su una simpatica faccia barbuta, le parla con calma, a bassa voce, mentre prende dei biscotti da uno zaino con su stampato il logo degli AC/DC.

Io scrivo; tanti leggono, su carta o su iPad o su Kindle. La mia preferita è una ragazza dai grandi occhi grigioverdi, capelli lunghi biondo-cenere; non carinissima, soprattutto la bocca, troppo grande e troppo larga per il visino tondo; sta di fronte a me, seduta a terra, a gambe incrociate, immersa in un libro di Virgina Woolf. Dopo un po' leggo anche il titolo: “Orlando”, uno dei miei favoriti.
È talmente assorta che resta lì mentre tutti intorno a lei vanno verso l'imbarco. All'improvviso si riscuote e si guarda intorno, quasi smarrita.
(Conosco quella sensazione: il ritorno alla realtà; dal mondo scritto al mondo non scritto, come diceva Calvino; quasi un parto).
(C'è anche una morettina, italiana, che legge “Le notti bianche”).

Al centro del gate, un branco di trolley con le maniglie tirate su, come fenicotteri alla pastura.

Joys and pains of being overzealous.


Telling outfits.
Età stimata: fra i 35 e i 40.
Camicia bianca, aderente, con colletto a due bottoni e orli neri, aperta sui pettorali. Grossa cinta rossa, blu e verde. Jeans aderenti color kaki. Scarpe da tennis fighette. Capello rasato fino alla tempia. Occhiali da sole con montatura sottile dorata. Orecchino a sinistra, orologione quadrato, anello al mignolo sinistro, braccialetto d'argento al polso destro, piercing sul lato della narice.
Modello tamarro sofisticato.

L'aereo mi mette sonno.
Però, per motivi di natura essenzialmente anatomica (lunghezza dei miei femori non compatibile con quello che le compagnie aeree chiamano “leg room”), posso dormire soltanto in due posizioni: o con le gambe di traverso nel corridoio, se ho il posto sul corridoio, mettendo però a repentaglio i miei stinchi, nonché l'incolumità di passeggeri, hostess e steward; oppure in posizione fetale, con le gambe rannicchiate davanti a me, puntate sul sedile davanti, un gomito contro il ginocchio e la testa appoggiata alla mano. Quest'ultima posizione è particolarmente scomoda se ho appena mangiato, per ovvi motivi di compressione dei visceri.
Metteteci anche che, sempre per dimensioni anatomiche, la mia testa di solito arriva parecchio al di sopra dei poggiatesta, che quindi vanno a insistere proprio sulle vertebre cervicali.
Chicca finale, l'aria condizionata che mi dà un'insopportabile senso di secchezza delle fauci (come recitano i bugiardini delle medicine) e della pelle, soprattutto i palmi delle mani.
Insomma, decisamente non sono fatto per volare.

Chissà se poi il mio amico Marco ha fatto pace con Paolo Nori. All'aeroporto ho trovato un suo libretto, che poi è un opuscoletto di una settantina di pagine, con la trascrizione di due conferenze.
L'ho letto nelle due ore e rotti del volo. Gradevole, leggero. Non mi ha lasciato quasi niente.

Da due giorni tento di scrivere una poesia di cui ho solo il primo verso e mezzo: “Non è altro l'amore se non questo / eterno ritorno...”. Mi sa che getto la spugna.
(Lei – la poesia – continuerà a bussare alla porta. Io non rispondo).

L'autista del taxi è un simpatico donnone grosso come un armadio, che parla con un tremendo, sincopatissimo accento nel quale fatico a segmentare le parole. Durante il tragitto, ascolta qualcosa alla radio, che poi – sentendo nominare Valentino Rossi – capisco essere la cronaca del gran premio di motociclismo. Ogni tanto alza il volume, impreca a bassa voce e lo riabbassa. L'unico giornale che ha in auto è una rivista di Formula 1.

Il senso di nausea, cominciato in aereo, peggiora in taxi. Il panino al prosciutto si aggira da qualche parte intorno alla bocca dello stomaco. Non aiuta l'aria fredda a manetta, né la guida a sinistra, che mi dà sempre un sottile senso di disagio.

Quello che noto quando vengo in Gran Bretagna è che le città inglesi si presentano con una sorta – come dire? – di medietas. Mancano di quei picchi di bellezza – e di bruttezza – delle città italiane. I nostri centri storici meravigliosi, intervallati da orrendi palazzi da speculazione edilizia, o circondati da opprimenti dormitori in cemento.
Qui si percepisce la superficie lisa, ma viva, dell'esistenza quotidiana. L'ordine, la cura. Manca – anche nelle case private – quello sfoggio di eleganza di tante case italiane. La moquette non è sempre immacolata, i mobili spesso difettano di gusto. Però i giardini sono ben tenuti, le strade pulite. A noi italiani può sembrare tutto grigio, spento, anonimo, persino deprimente; ma le facciate di mattoni rosso-neri, i segni dell'edera che si arrampica sull'intonaco, la maniglia resa lucida da anni di uso, mi trasmettono, in qualche strano modo, un senso di tenerezza.

Guardare negli occhi una persona e pensare: “Ah, ecco che cos'era quel senso di vuoto proprio al centro del petto. Mi mancava un pezzettino di anima. Eccolo qui, l'ho ritrovato”.

Tagliatelle alla bolognese (taliatèle balanìììììz): tagliatelle cotte quasi decentemente, sugo più che passabile.
Tiramisù: accettabile.
Considerato che siamo in Inghilterra, è andata bene.
(Lo so, lo so: non si dovrebbe mai mangiare cibo italiano all'estero. Ma stasera mi sentivo fortunato).
Comunque lo chef, tale Jaimie, pare sia uno di quei cuochi à la page, che scrivono libri e vanno in TV.

4 commenti:

amanda ha detto...

pure belloccio, lo chef, :D

Marco Bertoli ha detto...

Hai colto bene lo spirito dell'Inghilterra provinciale, secondo me.

Chissà se poi il mio amico Marco ha fatto pace con Paolo Nori.

Sono io? Con lui, come diarista, sì… come scrittore, proprio no, ma ormai non leggo un libro suo da anni?

Ciao!

sergio pasquandrea ha detto...

@Marco, sì, sei tu ;-)
per me, invece, è il primo libro suo che leggo

milo temesvar ha detto...

"Mi sa che getto la spugna." se finisci la poesia, mi sembra un buon verso finale.