sabato 31 ottobre 2015

ultima

È questo il momento giusto per l'abbandono
quando tutto è al suo vertice
bocche sconosciute ti chiamano a gran voce
e sembra davvero che tutto sia sul punto di accadere
un passo indietro nient'altro che questo
smettere di fare attrito
tanti altri proseguono schiavi dello slancio
è tempo di sciogliere le radici
la pelle reclama l'aria fredda
fuori della gabbia oltre il limite delle ossa
eccomi eccomi non manca molto
l'equilibrio è già precario.

giovedì 29 ottobre 2015

preferisco l'immobilità

In questa mattina di pioggia torrenziale
mi è tornato il mente il tuo volto.
Non so perché: affinità
meteorologiche forse. Ma so
che mi è tornato in mente
come tornano in mente i ricordi
irrevocati – come l'ustione
che ti sorprende nel mezzo di un gesto.
Ho sempre meno voglia di agire: preferisco
l'immobilità ormai. Sarà l'età credo.
Sono fermo a guardare il tuo volto che non c'è.
In realtà è il parabrezza. La pioggia
mi circonda. Continuo a pensarti
continuo a pensare che serva a qualcosa.

martedì 27 ottobre 2015

visioni incrociate: Be Happy, Be Sad ("Minions" / "Inside Out")

Inside Out (cartone animato), Pixar/Disney, 2015
Minions (cartone animato), Universal, 2015

L'undicenne Riley si trasferisce con i suoi genitori dal Minnesota a San Francisco. Fino a quel momento allegra e ottimista, la ragazzina vive un momento di crisi per il cambio d'ambiente e d'amicizie. Sembra crollarle il mondo addosso, ma con l'aiuto di due amorevoli genitori riuscirà a superare il brutto momento e ad uscirne maturata.
La trama di Inside Out, più o meno, è tutta qua.
Il colpo di genio... beh, lo saprete certamente: è raccontare tutto dall'interno, ossia descrivere graficamente ciò che succede nel cervello della bimba, personificando i suoi meccanismi cerebrali e in particolare le sue emozioni primarie, Gioia, Tristezza (le vere protagoniste del cartone), Rabbia, Disgusto e Paura.
Dal punto di vista grafico, siamo al solito livello Pixar, ossia eccellenza assoluta.
Dal punto di vista narrativo, il messaggio del film è che una personalità davvero equilibrata è la somma di tutte le nostre esperienze ed emozioni, quelle brutte così come quelle belle. Può sembrare banale, ma non è da poco in una società quale quella americana, dove l'ottimismo è la parola d'ordine e la tristezza, se fosse possibile, sarebbe bandita per legge.
(Dal punto di vista personale, Gioia rientra nella mia personale Top Ten dei personaggi più insopportabili di tutti i tempi; ma questo è un altro discorso).

Quanto a Minions, si tratta com'è noto di uno spin-off del cartone Cattivissimo me. I Minions sono buffi esserini a forma di supposta, color giallo banana, eterni e indistruttibili, che fin dall'inizio dei tempi si dedicano a servire il più cattivo dei cattivi. 
Ma soprattutto i Minions sono allegri. Allegri sempre, comunque, al limite dell'ebetudine, tanto da far sospettare più che legittimamente o l'uso intensivo di sostanze psicotrope, o una seria tara cerebrale.
Della trama, c'è poco da dire: i Minions, dopo aver attraversato varie epoche, sbarcano nella Swinging London degli anni Sessanta e si trovano implicati in una trama esagerata e iperbolica a base di supercattivi e supercrimini. Combinando, ovviamente, una serie interminabile di disastri e dando origine a una sequela di gag che arrivano a coinvolgere addirittura la Regina Elisabetta.
E il messaggio? Il messaggio non c'è.
Però il film è divertente (tranne la mania del citazionismo, che davvero non se ne può più).

lunedì 26 ottobre 2015

visioni: il capolavoro "Nausicaa" di Miyazaki

Hayao Miyazaki, “Nausicaa della Valle del Vento” (cartone animato, Giappone 1984)

Per quanto mi riguarda, Miyazaki è a prescindere. È un genio, punto e basta. Lo dico subito, tanto per chiarire le carte in tavola.
“Nausicaa della Valle del Vento”, forse la sua opera più nota, perde in questo adattamento per il grande schermo un buon due terzi della trama: il film equivale più o meno a due dei sette spessi volumi che costituistono il manga. Del resto, fu prodotto nel 1984, quando il fumetto era ancora in via di realizzazione; Miyazaki gli darà un finale soltanto dieci anni dopo. Così facendo, la vicenda perde anche alcuni dei suoi aspetti più complessi, persino pessimisti: ma pazienza.
In compenso, “Nausicaa” acquista il colore (splendido) e mantiene le caratteristiche essenziali dell'opera originale: una protagonista femminile forte e determinata; la passione per le scene di volo; l'attenzione all'ecologia; il pacifismo; la propensione a una fantascienza immaginifica ma seria, fortemente ancorata a temi di tipo sociale.
La trama è molto nota, ma la riassumo brevemente. In un lontano futuro la Terra, colpita mille anni prima da una catastrofica guerra totale, è stata ricoperta quasi interamente dal Mar Marcio (o Mare della Putrefazione, com'era tradotto nel manga), un'immensa giungla tossica che emette irrespirabili miasmi, nella quale riescono a vivere solo sciami di giganteschi insetti mutanti. I più caratteristici sono gli Ohmu, una sorta di titanici artropodi grandi come palazzi.
Nelle poche zone risparmiate dalla giungla, gli uomini sopravvivono a uno stadio tecnologico che mescola elementi medievali con altri di carattere più moderno, come armi da fuoco e macchine volanti. In una di queste zone, la Valle del Vento, vive Nausicaa, giovane principessa dotata di straordinari poteri: oltre ad essere bravissima nel volo planato con il Mowe (una sorta di aliante), è capace di comunicare telepaticamente con tutti gli esseri viventi, persino con i terribili e mostruosi Ohmu.
Spetterà proprio a lei il compito di fare da paciere fra i regni in lotta di Tolmechia e Pejite, scongiurando così una nuova catastrofe nucleare. Nel corso della vicenda, si scoprirà che forse non tutto è perduto e che la Madre Terra si sta riprendendo dalle ferite inflittele dall'uomo.
“Nausicaa della Valle del Vento” è una bellissima favola, in cui nessuno è interamente cattivo né interamente buono, nemmeno la stessa Nausicaa (anche se quest'aspetto è meno sviluppato nel film di quanto lo sia nel manga) e tutti i personaggi rivelano un'affascinante ricchezza psicologica.
Consigliatissimo a tutti, grandi e bambini.

domenica 25 ottobre 2015

quando sorridi

sabato 24 ottobre 2015

ieu sui Arnaut qu'amas l'aura...

Ab gai so cundet e leri...

Su un'arietta allegra e lieve
io digrosso le parole,
che saranno vere e certe
dopo che le avrò limate,
perché è l'amore che indora
il canto che da lei è mosso
e che il Valore governa.

Ogni giorno io miglioro
perché servo la più bella
del mondo, e lo dico aperto:
da capo a piedi son suo,
se soffiano i venti freddi
l'amore che in cuore piove
nel più gran gelo mi scalda.

Mille messe ascolto ed offro,
accendo candele e lumi
ché Dio mi doni il successo
dove è vana la difesa;
guardando i biondi capelli
e il suo corpo fresco ed agile,
l'amo più del più gran dono.

Tanto in cuore la desidero
che perciò temo di perderla
per il troppo desiderio,
perché il suo cuore sommerge
il mio e non se ne scioglie:
tanto debito m'ha imposto
che ora tutto mi confisca.

Non vorrei l'Impero a Roma
e nemmeno di esser Papa,
ma solo il rifugio in lei
per cui il mio cuore si strugge;
se non mi compenserà
entro l'anno con un bacio,
sarò morto, e lei dannata.

Eppure, per quanto soffra,
d'amarla non mi distolgo;
se mi lascia solitario,
per lei faccio suono e rima:
soffro più di chi lavori,
perché di più non amò
quello di Moncli Audierna.

Sono Arnaut, che coglie il vento,
con il bue caccia la lepre,
nuota contro la corrente.

(Arnaut Daniel – traduzione mia)

venerdì 23 ottobre 2015

grafologia

Col passare degli anni, notavo, il mio tratto quando disegno si è fatto sempre più duro e spigoloso. Uso meno sfumature e più contrasti; meno linee morbide e più segni taglienti, netti, affondati nel foglio.
La stessa cosa, notavo pure, è successa con la calligrafia. Quella dei tempi del liceo era più rotonda, ricca di curve e di svolazzi. Con gli anni, sono aumentati gli angoli e le punte.

(Come sempre mi succede, ho l'impressione che tutto ciò significhi qualcosa, ma non so bene cosa.)



Quattro ritratti di Daniela

china (pennino e pennelli), 2002

china (pennello), 2002

penna biro, 2014

pennarelli, 2015

giovedì 22 ottobre 2015

recensioni: "Geologia di un padre", di Valerio Magrelli

Valerio Magrelli, Geologia di un padre (Einaudi, 2014); 168 pp., € 10.


Con Valerio Magrelli ho un rapporto complicato.
A dire il vero, l'ho frequentato abbastanza poco, o comunque meno di tanti altri poeti. La ragione è questa: quando lo leggo, mi sembra di scorgere un Doppelgänger. Magrelli scrive ciò che vorrei – dovrei? – scrivere io.
Per qualche ragione, ho un rapporto meno complicato con il Magrelli prosatore, a partire dallo splendido “Nel condominio di carne” (Einaudi, 2003), di cui questo “Geologia di un padre” è l'ideale prosecuzione e conclusione.
Magrelli passa in genere per un poeta tutto mentale e intellettuale. In realtà, chi lo conosce sa che alla sua poesia è sottesa (anche) una riflessione sul corpo, sulla carne, e sui suoi legami con la mente. Se in “Nel condominio di carne” il corpo era quello del poeta stesso, indagato nella sua più creaturale fisicità (un corpo spesso malato, operato, crocifisso da protesi), qui il discorso si porta più indietro o, per riprendere la metafora del titolo, più in profondità.
Il corpo, e la mente, qui sono quelli del padre.
Ora, l'autobiografia è sempre un terreno scivoloso. Scrivere di ricordi personali, indagare la malattia e il disfacimento fisico e psichico di un genitore: tutti temi a fortissimo rischio di patetico. Magrelli lo evita perché il suo sguardo resta sempre fermo, anche nei momenti di più intensa commozione; e perché il vero tema è uno scavo impietoso in sé stessi, in quel calco ineluttabile che un genitore rappresenta per il figlio.
Il libro è strutturato in ottantatré capitoletti (tanti quanti gli anni di vita del padre), tramati di rimandi e collegamenti espliciti e impliciti.
Torniamo al punto di partenza: se mai dovessi scrivere un libro del genere, lo vorrei scrivere così. Proprio così.

mercoledì 21 ottobre 2015

recensioni: "Portarsi avanti con gli addii" di Francesco Tomada

Francesco Tomada, Portarsi avanti con gli addii (Raffaelli Editore, 2014); 96 pp., 12 €

Il terreno su cui si muovono i versi di Francesco Tomada è quello, periglioso, della massima semplicità.
Il lessico che adopera è quotidiano, l'andamento è discorsivo, la struttura retorica – pure presente – è mascherata sotto la superficie di una lingua che si tiene stretta a un tono medio, discorsivo, che disegna situazioni di dimessa, quasi rassegnata quotidianità.“Periglioso”, questo territorio lo è in due sensi: primo, perché il limite tra semplicità e banalità è sottilissimo e il rischio di trapassare dall'una all'altra è alto; secondo, perché uno stile che rinuncia in modo così rigoroso a tutti gli effetti più plateali può facilmente passare per trascurato.
Ora, quel che posso dire è che i versi di Tomada, alla mia sensibilità di lettore, parlano. E lo fanno perché è evidente che l'autore sa benissimo dove vuole andare e come arrivarci.
"Portarsi avanti con gli addi" è un testo smilzo (una cinquantina di testi) ma intenso. Le sue pagine sono tutte percorse dal senso della perdita e dell'abbandono, tanto più intensi quanto maggiore è il riserbo e la sincerità (non sembri un ossimoro) con cui viene espresso. Ma la materia non è solo privata, perché questa poesia è fortemente radicata nel paesaggio natale dell'autore, un Friuli terra di frontiera, dove l'identità italiana si mescola con quelle slave e mitteleuropee.
Completano il libro dei bei disegni al tratto di Anton Špacapan Vončina e una postfazione di Fabio Franzin, che è in realtà un corposo saggio di una ventina di pagine.

martedì 20 ottobre 2015

nel corso del tempo

(per Ele)

Col tempo ho imparato
che le parole giuste sono le più semplici
e che per quanto doloroso il taglio
ravviva la pianta.
Col tempo – mi dici – hai imparato
che non c'è altra soluzione
se non riconoscere la bellezza
e dire “ti voglio bene”.

Ho su di te il vantaggio del tempo
– otto anni sei mesi
e tre giorni – per questo
io ti chiamo sorellina
e tu mi chiami (sorrido)
il tuo angelo custode.

Però la verità amica mia
la sappiamo entrambi
e non ci sarebbe nemmeno bisogno
di dirla – se non fosse
che quando tu respiri io respiro
e quando tu ridi io rido

e non smetto mai di stupirmene.

lunedì 19 ottobre 2015

brillamenti

Sai sono sempre più convinto
che la felicità si manifesti
a tratti – per fulgori barbagli
balenii e che forse
sia necessario perderti
subito dopo averti ritrovata
per aspettare il prossimo
brillamento il lampo
nerissimo dei tuoi occhi.

domenica 18 ottobre 2015

cronache familiari: afflati

“Maaaaamma, mi vieni a dare un bacinoooo? Un bimbo senza mamma è come un oceano prosciugato, una bicicletta con le ruote sgonfie, un monopattino senza ruote!”

(...ho creato un mostro.)

sabato 17 ottobre 2015

j'abite mon corps

Ci appartiene, il nostro corpo? Non saprei.
Con esso ci identifichiamo, almeno in parte. Lo abitiamo. E, in una certa misura, lo gestiamo. Ma molti altri possono vantare diritti pari o persino superiori.
Il barbiere, che notando una basetta asimmetrica o una sfumatura un po' troppo decisa ci rimbecca con un “ci ha messo mano lei, eh?”
Il medico, che esercita la sua giurisdizione sulle regioni che noi stessi gli abbiamo affidato.
Il datore di lavoro (stavo per dire: “il padrone”, quanto sono antico...), che può confinarlo per otto ore in una stanza impedendogli di seguire le proprie naturali pulsioni.
Un(')amante, com'è ovvio, il cui potentato spazia sulla sua intera estensione, fino alle più minute pliche.
Lo Stato, la società, la cultura, la morale che – ce ne rendiamo conto o no – educandolo lo disciplinano, lo irreggimentano, lo irrigidiscono, ne comprimono e amputano le potenzialità.

E a noi? Che cosa resta? Poco, in effetti.
Il gabinetto, ultima landa vergine della privacy.
Il suicidio, che per gli antichi era la suprema affermazione dell'uomo sul suo destino.
I rari momenti di totale solitudine.
Il sonno, quando ci consegniamo interi a noi stessi.
È per questo che il sonno mi affascina: me insonne per carattere e per genetica. Chi mi agisce nel sonno? Chi muove il mio corpo? Chi mi detta i sogni?
Io? Risposta troppo semplice. “Io è un altro”, disse Rimbaud. “Io sono tanti altri”, chioserei.
Fa da collante questo minuscolo frammento di autocoscienza che guida le mie dita mentre scrivo.
E che si crede padrone, mentre è una mosca cocchiera, marionetta inconsapevole dei propri fili.

venerdì 16 ottobre 2015

visioni: "Il brigante di Tacca del Lupo" (1952), o il western di casa nostra

Il brigante di Tacca del Lupo (Italia, 1952), di Pietro Germi. Con Amedeo Nazzari, Cosetta Greco, Saro Urzì (b/n, 93 minuti)

Anche noi abbiamo avuto il nostro Far West. Fu la lotta al brigantaggio.
E il paragone non sembri azzardato, perché le montagne lucane e calabresi non erano, nel 1860, meno selvagge delle praterie americane, e i contadini meridionali subirono un trattamento non meno duro di quello delle tribù pellirossa (si cerchino su Google i nomi di Pontelandolfo e Casalduni, per averne un'idea). Solo che gli americani hanno – più o meno – fatto pace con Sioux e Cheyenne, o almeno con quel poco che ne resta, mentre in Italia il Sud rimane una piaga suppurata.
Tutto ciò per dire che questo film di Pietro Germi comincia con una rappresentazione tutto sommato abbastanza verosimile di quelle che erano le condizioni del Meridione subito dopo l'Unità. Il duro e inflessibile capitano Giordani (un granitico Amedeo Nazzari) arriva in un paesello della Basilicata per prendere il comando di un reggimento di bersaglieri, deciso a dare la caccia e a catturare l'imprendibile brigante Raffa-Raffa. Si dovrà scontrare con l'ostilità della popolazione locale, ben poco disposta a dare man forte ai “piemontesi”. Persino il commissario di polizia inviato da Foggia per indagare è una figura ambigua, sfuggente, in odore di doppio gioco. E c'è pure il personaggio di un ex-ufficiale borbonico passato tra i briganti, a rappresentare quell'istanza legittimista che fu una componente importante del brigantaggio.
Per tutta la prima parte, ci sono scene anche di una certa crudezza, tra cui la fucilazione sommaria di alcuni contadini accusati di aver collaborato con i ribelli. Poi si cambia marcia, e il film si rivela per quel che è: un western, con i bersaglieri al posto del Settimo Cavalleria, Nazzari al posto di John Wayne e i briganti al posto degli Apache (che, ricordiamocelo, a quest'epoca erano ancora i cattivi, senza troppe remore morali).
Dopo vicissitudini che non sto a riassumere, la situazione si risolve grazie a una sottotrama passionale: la bella contadina Zita Maria, violentata da Raffa-Raffa, verrà vendicata dal marito Carmine, che per questo accetterà di collaborare con i bersaglieri, rivelando loro il nascondiglio dei briganti. Una piccola pattuglia, con Giordani al comando, raggiunge il covo, ma viene scoperta e assediata e sta per soccombere; sul più bello, come di prammatica, arriveranno i nostri.
Finale consolatorio, con Raffa-Raffa ucciso in duello da Carmine, i due sposi riuniti e tutta la popolazione del paese poco plausibilmente impegnata a fraternizzare con i soldati, i quali da parte loro concedono l'onore delle armi al nemico sconfitto. 
Peccato, perché poteva essere una bella occasione. Ma si vede che i tempi non erano maturi (del resto, c'è da chiedere se lo siano persino ora).

(Il film, comunque, ha un ritmo svelto e incalzante e si lascia guardare volentieri. Nella sceneggiatura, spicca la mano di un giovane Federico Fellini.)

giovedì 15 ottobre 2015

suonare

Suonare Bach.
Sdoppiamento, anzi moltiplicazione percettiva. Quasi che ogni mano, ogni dito, starei per dire ogni falange, assuma una vita propria, e insieme sia posseduto, guidato dalle meccaniche celesti verso percorsi inevitabili
("Nella musica di Bach non esiste l'ansia", ha detto qualcuno; ed è verissimo).




Suonare Beethoven.
La fatica muscolare, il duro lavoro del pensiero. Le mani che vorrebbero trasformarsi in un'intera orchestra.
(Beethoven era famoso per distruggere pianoforti a catena.)




Suonare Chopin.
I polpastrelli che assumono una vibratilità estrema, sensibili alle minime variazioni di tocco e di colore.
(Chopin faceva ripetere ai suoi allievi certi passaggi - a volte persino certe singole note - decine, centinaia di volte, alla ricerca spasmodica del suono che fosse il suono).




Suonare Mozart.
La purezza delle linee, sulle quali ogni minimo errore risalta quasi intollerabile, come una macchia d'unto su un bicchiere di cristallo lucido.
(Eppure esiste un Mozart drammatico, addirittura luciferino.)


mercoledì 14 ottobre 2015

recensioni: Marcello Piras, "Dentro le note" (con un'appendice pubblicitaria)

Marcello Piras, Dentro le note. Il jazz al microscopio (Arcana, 2015); 240 pp., € 19,50

Chi ha una sia pur minima frequentazione del jazz sa chi è Marcello Piras.
Per chi non ce l'ha, Piras è un critico e musicologo fra i più acuti e originali in Italia, firma storica di “Musica Jazz” negli anni Ottanta e Novanta. Allo stesso tempo, però, Piras è una personalità socratica, che ha sempre preferito affidare le proprie idee alle conferenze (è uno dei conferenzieri più brillanti che io conosca) o ad articoli e saggi, sparsi qua e là. A mia memoria, ma potrei sbagliarmi, questo è solo il terzo libro uscito a suo intero nome (gli altri due sono una guida al jazz per Editori Riuniti e un bellissimo volumetto su John Coltrane pubblicato oltre vent'anni fa da Stampa Alternativa; entrambi, credo, ormai introvabili se non fra l'usato; ma se li trovate, comprateli, specialmente il secondo).
“Dentro le note” raccoglie quaranta brevi saggi; uno è inedito, gli altri apparvero nell'omonima rubrica di “Musica Jazz” e sono pubblicati qui con piccole revisioni e aggiustamenti. Ognuno parte da un brano, lo analizza dal punto di vista formale, ne rivela i segreti più minuti, quelli che sfuggono a un ascolto superficiale o distratto (da cui il sottotitolo del libro).
Si tratta, è bene dirlo, di analisi piuttosto tecniche, adatte a un lettore che abbia una familiarità almeno elementare con la teoria musicale e con il jazz. Non roba per principianti assoluti, insomma. Ma attenzione: non sono affatto testi aridamente tecnici, e ciò per due motivi: il primo è lo stile di Piras, che, da splendido divulgatore qual è, riesce a veicolare anche i concetti più ardui con un linguaggio piano, scorrevole e ricco di ironia; il secondo è che Piras non si ferma mai al dato meramente tecnico, ma lo usa sempre come punto di partenza per spaziare oltre.
Chi ha ascoltato parlare Piras, o ha letto qualcuno dei suoi saggi, riconoscerà in questi brevi pezzi alcuni dei temi che da sempre hanno innervato la sua ricerca: l'aspetto strutturale-compositivo del jazz, i suoi legami con il vasto bacino delle musiche afroamericane da una parte e con la tradizione eurocolta dall'altra, l'interesse per tutta la storia di questa musica, a trecentosessanta gradi (i brani analizzati spaziano dal ragtime al free, dal bebop al cool, fino ad autori apparentemente fuori dal canone strettamente jazzistico come George Gershwin e Hoagy Carmichael).

Permettetemi di concludere con un piccolo spazio pubblicitario: lunedì prossimo, Marcello Piras sarà a Perugia per una conferenza. Considerato che vive da anni in Messico, sentirlo in Italia è un'occasione rara. Se potete, veniteci: ne vale la pena (e lo dico con un pizzico d'orgoglio, perché fra gli organizzatori dell'evento ci sono anch'io).
La conferenza si terrà lunedì 19 ottobre alle ore 18 presso la Scuola di Musica “La Maggiore”, c/o Scuola Media “San Paolo”, viale Roma (Perugia). 
Ingresso: 7 euro. Per informazioni: 075 5736460; http://www.scuolamusicalamaggiore.pg.it

martedì 13 ottobre 2015

al gender! al gender!

I miei figli, una femmina di otto anni e un maschio di cinque e mezzo, dormono da sempre nella stessa cameretta e giocano insieme tutti i pomeriggi.
Si scambiano e condividono i giocattoli. A volte giocano alla famiglia, e lui, impersonando il marito/papà, culla e dà da mangiare ai bambolotti di lei. Altre volte giocano ai pirati, o ai cowboy, e lei si arma di tutto punto con spade e pistole. Altre volte lui è il cavaliere e lei la principessa.
Spesso mi saltano addosso e lui è sempre il primo a dare e chiedere baci e abbracci, persino più di lei.


Comincio a sospettare che la casa mia sia una pericolosa centrale operativa del Gender.

lunedì 12 ottobre 2015

ogni parola

Lèggere d'estate
mi evoca le vaste praterie
dell'adolescenza – le distese
vergini di tempo che
attraversavo lastricandole
di pagine – la voce di mia madre
che chiedeva: ma cosa capisci
se salti le righe? Tutto
scopro adesso – tutto
ogni parola
anche quelle non lette.

domenica 11 ottobre 2015

recensioni: "Botanica arcana" di Moira Egan

 Moira Egan, Botanica arcana (Strange Botany), traduzione di Damiano Abeni, Pequod, 2014

In genere, per la poesia, sono un lettore lentissimo. Quindi è assolutamente eccezionale che mi sia spolpato (e la metafora non è casuale, come spiegherò fra poco) questo libretto di Moira Egan in un'oretta.
Va bene che è un libretto sul serio, diciannove poesie inglesi con altrettante traduzioni italiane, per un totale di una novantina scarsa di pagine. E va bene che alcune poesie le avevo già lette sul web, però ripeto non è normale. Ma il piacere della lettura era tanto che non potevo letteralmente staccarmi.
Ora, la domanda è: in quanti modi si può raccontare una storia d'amore? Risposta: tantissimi, forse infiniti. Moira Egan sceglie di farlo attraverso le piante, con particolare attenzione a quelle commestibili.
E la soluzione non è tanto peregrina, se si pensa che la storia in questione è quella fra una lei poetessa americana, trapiantata in Italia per amore, il cui modello principale è Marianne Moore; e un lui (Damiano Abeni), per professione medico, per passione traduttore, nonché botanico dilettante (e manco tanto dilettante, direi). E se – a quanto si capisce – entrambi sono intenditori di buona cucina, oltre che di poesia.
Moira Egan ha una dote che me la fa adorare: un tono apparentemente casuale, a volte quasi frivolo, quasi sempre frastagliato da una leggera ironia, che parte dall'osservazione di dettagli insignificanti, o dalla narrazione di fatti quotidiani, per trapassare in maniera quasi insensibile alla riflessione.
Ogni sua poesia possiede quella qualità che gli inglesi chiamano wit, e che non credo abbia un preciso equivalente italiano: un'intelligenza sottile e acuta, spesso divertente ma mai scontata né banale, anzi sempre ricca di piacevoli sorprese.
Un libro carnale e brillante.

sabato 10 ottobre 2015

visioni: "La Mandragola", ovvero "poteva essere un decamerotico"

La mandragola (Italia/Francia, 1965, b/n), regia di Alberto Lattuada; con Philippe Leroy, Rosanna Schiaffino, Romolo Valli, Nilla Pizzi, Jean-Claude Brialy, Totò; 97 minuti (ma credo ne giri anche una versione con qualche minuto in più di scene tagliate)

E forse lo è, un decamerotico, per gli standard dell'epoca (il 1965). Perché gli scorci di gambe tornite, schiene nude, corpi avvolti in panni bagnati, insomma tutto quell'indagare della telecamera intorno alla sontuosa bellezza di Rosanna Schiaffino (una bellezza d'altri tempi, di quando la bellezza si misurava in morbidi rotolini di carne avvolti intorno alle ossa, e non in ossa a diretto contatto con la pelle), tutto quel voyeurismo, dicevo, era probabilmente il massimo di malizia che all'epoca ci si potesse permettere. E del resto la scena iniziale, con i clienti delle terme che sbirciano la sezione femminile attraverso un tramezzo forato, sarà replicata infinite volte nel trash anni Settanta, con gli Alvarovitali e i Linobanfi che sbavano di fronte alla Edvigefenech, Gloriaguida, Barbarabouchet o Michelamiti di turno.
Scherzi a parte, ciò che salva il film sono il tocco elegante di Lattuada (e di Luigi Magni, co-sceneggiatore), una messa in scena molto curata quanto a costumi e ambientazioni e una sfilata di belle caratterizzazioni: il Callimaco aitante di Philippe Leroy, il Ligurio simpaticamente canagliesco di Jean-Claude Brialy, il Nicia tutto sommato bonario di Romolo Valli, la pepata Lucrezia di Rosanna Schiaffino, e soprattutto lo strepitoso fra Timoteo di Totò, misuratissimo, sensibile, persino delicato, che in quella manciata di minuti in cui sta sullo schermo fa letteralmente scomparire tutti gli altri attori.
La trama è sostanzialmente quella della commedia di Machiavelli, con qualche scena aggiunta, qualche taglio e qualche aggiustamento indispensabile per passare al grande schermo.
Tutto sommato, una visione più che gradevole.

venerdì 9 ottobre 2015

undici piccole poesie di Paulo Leminski

"Quarenta clics en Curitiba" (1976) è il primo libro pubblicato da Paulo Leminski, il poeta del quale (come ricorderanno i più attenti fra i miei ventiquattro lettori) vi ho parlato non molto tempo fa.
Sono poesie molto brevi, frammenti ora lirici ora ironici. E spesso intraducibili, basati come sono su giochi fonetici e metrici, svaniti i quali svanisce tutta la poesia.
Io ho tradotto alcuni di quelli che mi sono piaciuti di più, e che sono riuscito a tradurre.

(Il titolo: alle quaranta poesie furono abbinate, nell'edizione originale, altrettante fotografie; Curitiba è il paese natale di Leminski).

* * *

Chiudiamo il corpo
come chi chiude un libro
perché lo sa già a memoria.

Chiudendo il corpo
come chi chiude un libro
in lingua sconosciuta
e disconoscendo il corpo
disconosciamo tutto.

* * *

La gente che tiene
gli uccelli in gabbia
dimostra tenerezza.
Gli uccelli sono in salvo
da qualunque salvezza.

* * *

Ho esitato per ore
prima di uccidere la bestia.
In fin dei conti,
era una bestia come me,
con diritti,
con doveri.
E, soprattutto,
incapace di uccidere una bestia,
come me.

* * *

i denti affilati della vita
preferiscono la carne
della più tenera infanzia
quando
i morsi fanno più male
e lasciano cicatrici indelebili
quando
il sapore della carne
non è stato ancora guastato
dalla salamoia del giorno per giorno

è quando
ancora si piange
è quando
ancora si rivolta
è quando
ancora

* * *

Non piove più
La gente bagna i passi
Le strade pesanti

* * *

Dopo oggi
la vita non sarà più la stessa
a meno che io non insista a ingannarmi
del resto
dopo di ieri
è stata la stessa cosa
l'altroieri
prima
domani

* * *

chi è vivo
appare sempre
nel momento sbagliato
per dire presente
dove nessuno l'ha chiamato

* * *

Com'è che la notte diventa giorno?
Il giorno diventa notte?
Solo arrivando.
Tutto ciò che sappiamo.

* * *

il tempo
tra il soffio
e lo spegnersi della candela

* * *

Il tempo diventa
ogni volta
più lento
e io
leggendo
leggendo
leggendo
finirò
per diventare leggenda

* * *

questo giorno
questo perverso giorno
che è venuto dopo ieri


(traduzioni mie)

giovedì 8 ottobre 2015

chi teme più?

Senza più peso
(a Ottone Rosai)

Per un Iddio che rida come un bimbo,
Tanti gridi di passeri,
Tante danze nei rami,

Un'anima si fa senza più peso,
I prati hanno una tale tenerezza,
Tale pudore negli occhi rivive,

Le mani come foglie
S'incantano nell'aria...

Chi teme più, chi giudica?

(Giuseppe Ungaretti, da "Sentimento del tempo")

mercoledì 7 ottobre 2015

vuoto, intero

Dunque ciascuno di noi è una frazione 
dell'essere umano completo originario.
Per ciascuna persona ne esiste dunque 
un'altra che le è complementare.”
(Platone, Simposio)

Lo so non è strettamente
indipensabile vederti. In fondo
ti indovino benissimo nelle mail
che mi scrivi sento il respiro
fendersi nell'ansia ti ascolto
nel silenzio ridere. E la tua voce
i tuoi occhi il tuo profumo quelli
non ho certo bisogno di vederli
né di sentirli per conoscerli. E allora
com'è che mi manchi? dico:
com'è che mi manchi così tanto
come mai sento questa forma
cava dentro il petto
questa tensione del vuoto
a farsi intero?

martedì 6 ottobre 2015

passeggiando per Roma

Zona Parioli (viale Buozzi / viale Aldrovandi / Villa Borghese).
Isolati su isolati su isolati senza un alimentari, un supermercato, un bar, un tabaccaio. Incrociamo un bar, alla fine: i clienti ai tavolini indossano capi di vestiario, uno dei quali da solo mi sbancherebbe il portafogli.
Alberghi talmente lussuosi da non avere nemmeno il numero di stelle. Davanti a uno, una camionetta dei carabinieri osserva un gruppo di ospiti - una famiglia di biondissimi, dall'aria scandinava - caricare i bagagli.
Per strada, si incrociano filippini che portano a spasso gli yorkshire e i carlini dei padroni; o giovani mamme dal look sporty-chic, con accanto una bambina e dietro una tata sudamericana che spinge il passeggino.
Condomini liberty con le placche dei citofoni in ottone lucidissimo. Ville, villette, villone con maestosi ingressi neobarocchi, su su fino ai palazzotti con giardino all'italiana e giardiniere in livrea, sui cui piazzali d'ingresso entrerebbe comodamente tutta casa mia.
I viali sono fiancheggiati da acacie, oleandri, pini marittimi, cedri del Libano. L'asfalto è tutto sbrecciato e cosparso di cicche di sigaretta e cacche di cane; all'odore di smog, che è il sottofondo olfattivo costante di Roma, si mescolano quello della pipì e l'afrore fermentante delle foglie marce e dei sacchetti d'immondizia, abbandonati a cataste davanti ai cassonetti della differenziata.

recensioni in pillole: "ABBA ABBA", un divertissement di Anthony Burgess

Anthony Burgess, ABBA ABBA, Vintage Classics, 2000 (127 pp.; 5,99 sterline)

Certe volte, mentre leggo libri in altre lingue, mi viene da pensare a come si potrebbero tradurre. Mentre leggevo questo ABBA ABBA in inglese, mi veniva da pensare “Oddio, povero il traduttore!”. Perché se è vero che qualunque opera d'arte è radicata nella lingua in cui è stata scritta, questa di Anthony Burgess (sì, quello di Arancia meccanica: proprio lui) è tutta un'acrobazia linguistica. Continui giochi di parole, neoconiazioni, personaggi che mimano questo o quell'accento. Insomma, un casino, per dirla alla francese.
Il meccanismo da cui parte Burgess è quello del “what if?”: “che cosa sarebbe successo se?”. In effetti, in questo caso il “what if?” è parecchio plausibile, anzi è addirittura possibilissimo che sia successo davvero, anche se nessun documento lo prova. Che cosa sarebbe successo se John Keats, il quale nel 1820 stava morendo di tisi a Roma, a soli venticinque anni, in un camera d'affitto affacciata su Piazza Navona, avesse incontrato Giuseppe Gioacchino Belli, all'epoca giovane funzionario pontificio, appena qualche anno più vecchio di lui, che cominciava a scrivere i sonetti romaneschi per i quali sarebbe poi diventato celebre?
Il risultato è un romanzo breve, o un racconto lungo se preferite (sono un centinaio di pagine), che ha in realtà molte facce: narrazione storica, indagine su due personaggi antitetici (l'inglese neo-pagano Shelley e il romano catto-blasfemo Belli) e non ultimo – come ho già detto – raffinato gioco metalinguistico. Perché, tanto per dirne una, c'è tutta una sottotrama su Keats che traduce in inglese un sonetto romanesco di Belli, fatto essenzialmente con i diversi nomi dell'organo maschile.
Ciliegina sulla torta, Burgess inserisce addirittura un'appendice in cui traduce (o dovrei meglio dire: reinventa) in inglese-mancuniano un'ottantina di sonetti belliani. Peraltro, va notato che Burgess – egli stesso poeta (e pure musicista se è per questo) – era anche sposato con un'italiana, per di più linguista e traduttrice (chi si somiglia si piglia...) e soggiornò a lungo in Italia, Roma inclusa. Chi ha letto Arancia meccanica sa bene quanto il gusto per i giochi linguistici fosse parte integrante del suo stile.
Insomma, per me leggerlo è stato un godimento. Tradurlo dev'essere stato un'impresa ai limiti del masochismo (è stato tradotto, qualche anno fa: Edizioni Robin, 1999, non più in catalogo credo; traduttore S. Marano).
Due parole sul titolo: ABBA è ovviamente lo schema di rime di una quartina di sonetto; ed è anche il grido di Gesù sulla croce (“Padre, padre, perché mi hai abbandonato?”); ed è anche la versione speculare delle iniziali di Anthony Burgess (che in realtà si chiamava John Burgess Wilson, ma si sa che degli scrittori ciò che conta è il nom de plume). “ABBA ABBA” è scritto anche sulla tomba di Burgess, nel cimitero di Monaco.
Burgess non si può negare che avesse una mente contorta; ma il bello è proprio questo.


lunedì 5 ottobre 2015

mio ritratto futuro

Contemplazione sulla panchina

I.
Il cuore polverizzato scricchiola
sotto il peso nervoso o ritardato o timido
che non lascia tracce nel viale, ma lascia
quest'impressione vaga nell'aria, e un'angoscia in me,
spiraliforme.

Tanto calpestano questa terra che un giorno
forse si umanizzerà. E impastato,
imbevuto della fluida sostanza dei nostri segreti,
chissà quale fiore vi si elabora, calcareo, sanguigno?

Ah, non vivere per contemplarlo! Eppure,
non è lungo ricordare un fiore, e consentito
correre in cima allo stretto fiume presente,
costruire con la nebbia il nostro arcobaleno.

I nostri doni temporali non avevano ancora oltrepassato
il chiaro magazzino di mattine
che ognuno porta nel sangue, nel vento.

Passerò la vita intonando un fiore, perché non so cantare
né la guerra, né l'amore crudele, né gli odi organizzati,
e guardo fra i piedi degli uomini, e medito.

Scultura d'aria, le mie mani
ti modellano nuda e astratta
per l'uomo che non sarò.

Egli forse capisce con tutto il corpo,
oltre la regione minuscola dello spirito,
la ragione dell'essere, l'impeto, la confusa
distribuzione, in me, di seta e pessimo.

II.
In qualche luogo si fa quest'uomo...
Contro la volontà dei padri nasce,
contro l'astuzia della medicina cresce,
e ama, contro l'amarezza della politica.

Non gli conviene il debole nome di figlio,
perché solo noi stessi possiamo generare,
ed egli nega, sorridendo, la scura fonte.

Fratello lo chiamerei, ma fratello,
perché, se la vita nuova
si nutre di altre foglie, che non conosciamo?

Egli è il proprio fratello, nel giorno vasto,
nella vasta integrazione di forme pure,
sublime arruolamento di contrari
infine allacciati.

Mio ritratto futuro, come ti amo,
e mineralmente ti presento, e sento
quanto sei lontano dal nostro vacuo disegno
e dalle nostre roche onomatopee...

III.
Ti vedo nelle erbe calpestate.
Il giornale, che lì giace, mente.

Ti scopro assente negli angoli
più popolosi, e ti vedo incorporeo,
eppure nidito, sopra il mare oceano.

Chiamarti visione sarebbe
fraintendere le visioni
di cui è pieno il mondo
e vuoto.

Quasi posso toccarti, come le cose antelucane
che prendono forma in noi, e lo sguardo non le cattura,
e germinano.

Dissolvendo la cortina delle parole,
la tua forma include la terra e si scioglie
alla maniera del freddo, della pioggia, del calore e delle lacrime.

Triste è non avere un verso più grande di quelli letterari,
e non comporre un verso nuovo, esorbitante,
per avvolgere la tua effigie lunare, o chimera
che ti alzi dal suolo calpestato e dalla povera erba.




Carlos Drummond de Andrade
(da “Claro enigma” - traduzione mia)

domenica 4 ottobre 2015

tutto è un mistero

Ci sono dettagli (penso disegnandoti)
del tuo volto che continuano a sfuggirmi.
Il sorriso per esempio – che non è affatto
concentrato nella sola bocca.
Il tuo sorriso irradia l'intero volto
ti si spande sulle guance illumina
l'interno delle palpebre
(e anche lì – la piega esatta
con cui le labbra si collegano agli zigomi
e gli zigomi alle orbite – tutto
resta un mistero una combinazione
impalpabile – basta un nulla
e non sei più tu).

sabato 3 ottobre 2015

visioni: "Blue", un western-non-spaghetti.

Due occhi di ghiaccio (Blue), di Silvio Narizzano (U.S.A., 1968); con Terence Stamp, Joanna Pettet, Ricardo Montalban, Karl Malden; 90 min.

Ci sono molti elementi che traggono in inganno, in questo film: la data, il nome del regista, il titolo italiano, l'ambientazione tra bandidos messicani violenti e selvaggi. Insomma, si pensa subito al solito spaghetti western.
 E invece, dopo un po', ci si accorge che non è vero. Del resto, nonostante il nome il regista è canadese, e dopo i primi quindici o venti minuti il film si trasforma in qualcosa di diverso, un western più psicologico che non avventuroso.
Dunque: all'inizio c'è la classica banda di desperados messicani agli ordini di un pittoresco capobanda (ma guai a chiamarlo così: lui si considera un rivoluzionario) con sombrero e banderuola di proiettili a tracolla. Nella sua banda, oltre a un'infornata di figli, ce n'è anche uno adottivo: Azul (Terence Stamp), un gringo biondo e dagli occhi azzurri che è diventato il preferito del capo. Con comprensibile irritazione dei messicani.
Durante un attacco a una fattoria oltre il Rio Grande, Azul, in un improvviso empito di generosità, salva la figlia di un rancher che sta per essere violentata (Joanna Pettet, non bellissima ma di gran carattere). Poi, ferito gravemente, viene salvato dalla stessa ragazza che convince il padre, medico, a curarlo e a nasconderlo. Perché ovviamente, se i vicini lo scoprissero, gli farebbero volentieri la pelle.
Joanne, questo il nome di lei, rimane affascinata da Azul, che è una specie di selvaggio: irsuto, barbuto, violento, quasi animalesco, per i primi tre quarti d'ora del film non pronuncia neanche una parola, esprimendosi a sguardi e a gesti. Un po' alla volta, il rapporto con la ragazza scrosta la sua corazza di mutismo e finamente Azul (o Blue, come si fa chiamare adesso), pettinato, sbarbato e rivestito, si trasforma di nuovo in un essere umano.
Ovviamente, Blue e Joanne si innamorano; anzi, per la precisione vanno a letto insieme. Il padre, che si è affezionato anche lui, accetta la situazione. Decidono di farlo passare per un vagabondo che si è fermato a lavorare alla fattoria.
Altrettanto ovviamente, gli altri americani cominciano subito a sospettare; tanto peggio quando alla fattoria si presenta il padre adottivo di Blue, il bandido, che non ha mai smesso di cercare il figlioccio. A questo punto, al giovane si presenta una scelta drammatica: restare con la donna che ama, tradendo suo padre e sfidando l'ostilità dei paesani, oppure lasciarla per tornare con i vecchi compagni, i quali però ormai lo considerano un traditore?
Finalone drammatico, che non vi rivelo.
Non so perché, questo film è bistrattato dalle principali guide cinematografiche. Io l'ho beccato per caso, quest'estate, su non so più quale canale, la mattina presto. A me è piaciuto: mi è sembrato piuttosto originale e con delle belle prove degli attori, specialmente Stamp, che è bravissimo.

venerdì 2 ottobre 2015

raccontino scolastico

Anni fa (una quindicina), quando ero un prof giovane, entusiasta (e un tantinello coglione), insegnavo in una minuscola succursale, sperduta nelle campagne umbre. C'era una sola sezione, con tre classi, prima seconda e terza media. Io avevo la seconda.
Mi venne una di quelle idee brillanti, quelle che vengono solo ai neofiti: dato che eravamo solo tre insegnanti di lettere (italiano-storia-geografia), uno per classe, e dato che c'era un pomeriggio di rientro alla settimana, perché non utilizzarlo per fare qualcosa a classi aperte?
In pratica, io prendo la prima, l'insegnante della prima prende la terza, ecc. L'idea era di vedersi un'oretta a settimana, scambiarci il materiale e applicarlo ognuno alla classe dell'altro.
Carino, no?

Risultato: dopo le prime due o tre settimane, andò a finire che il materiale dovevo prepararlo tutto io, le lezioni le organizzavo solo io, e le altre due prof cominciarono a non presentarsi, a lasciare la classe scoperta, ecc. quello che doveva essere un progetto collettivo era diventato "il progetto di Pasquandrea".
L'ultima goccia fu quella volta che, cinque minuti prima di entrare il classe, una delle prof mi disse: "No, sai, io e D. ieri abbiamo pensato che oggi il progetto non si faceva".
Al mio obiettare che magari potevano avvertirmi, e che adesso non potevo tenermi per due ore una classe che, dietro mia indicazione, non aveva portato alcun materiale, tutta la risposta fu una scrollata di spalle.
Il progetto morì lì.

Tutto ciò mi pare abbia un valore metaforico, anche se non so bene quale.

non c'è premio

Niente da aspettare
niente da temere
niente chiedere – e tutto dare
non andare
ma permanere.
Non c'è premio – non c'è posa.
La vita è tutta una dura cosa.


(Carlo Michelstaedter)

giovedì 1 ottobre 2015

oltre l'amore_quattro poesie di Carlos Drummond de Andrade

Essere

Il figlio che mai ho fatto
oggi sarebbe un uomo.
Corre dentro la brezza
senza carne, né nome.

Certe volte lo incontro
in incontri di nuvole.
Alla mia spalla appoggia
la sua nessuna spalla.

Interrogo mio figlio
oggetto tutto d'aria:
in che grotta in che guscio
astratto ora cadi?

Là dove io giacevo,
mi rispondeva l'alito,
tu non mi percepisti
anche se ti chiamavo

come ancora ti chiamo
(oltre, oltre l'amore)
dove il niente, ed il tutto,
aspira a crearsi.

Il figlio che mai ho fatto
si fa da sé medesimo.

* * *

 
Un bue vede gli uomini

Così delicati (più di un arbusto) e corrono
e corrono da una parte all'altra, hanno sempre scordato
qualcosa. Certamente, gli manca
non so che attributo essenziale, sebbene si presentino nobili
e gravi, a volte. Ah, spaventosamente gravi,
perfino sinistri. Poveretti, si direbbe non ascoltino
né il canto dell'aria né i segreti del fieno,
e nemmeno sembrano accorgersi di ciò che è visibile
e comune a ciascuno di noi, nello spazio. E diventano tristi
e a forza di tristezza arrivano alla crudeltà.
Tutta la loro espressione risiede negli occhi – e si perde
in un semplice abbassare di ciglia, in un'ombra.
Niente nei peli, nelle estremità inconcepibilmente fragili,
e quanta poca montagna c'è in loro,
e che magrezza e che rientranze e che
impossibilità di organizzarsi in forme calme,
permanenti e necessarie. Hanno, forse,
una certa grazia malinconica (un minuto) e con ciò si fanno
perdonare l'agitazione fastidiosa e il traslucido
vuoto interiore che li rende così poveri e bisognosi
di emettere suoni assurdi e agonici: desiderio, amore, gelosia
(che ne sappiamo noi?), suoni che si sbriciolano e cadono nel campo
come pietre afflitte e bruciano l'erba e l'acqua,
e difficile, dopo, è ruminarci la nostra verità.

* * *

Officina irritata

 Io voglio scrivere un sonetto duro
come nessun poeta ha mai osato.
Voglio dipingere un sonetto scuro
d'ardua lettura, secco e soffocato.


Dal mio sonetto voglio, nel futuro,
che nessuno mai venga consolato,
che con fare maligno ed immaturo
al tempo stesso sia, e non sia stato.

Questo verbo antipatico e impuro
saprà d'aspro e dolore sul palato,
tendine di Venere al pedicure.

Ignoto a tutti, colpo contro il muro,
cane che piscia nel caos, però Arturo,
chiaro enigma, resti meravigliato.

* * *

Confessione

Non ho amato abbastanza il mio simile
non ho tolto il verme né curato la rogna.
Ho solo profferito qualche parola
melodiosa, tardi, tornando dalla festa.

Ho dato senza dare e baciato senza baci.
(Cieco è forse chi nasconde gli occhi
sotto la branda). E nella penombra
si sciupano tesori, i più eccellenti.

Di ciò che resta, come comporre un uomo
e tutto ciò che egli implica di soave,
di concordanze vegetali, mormorii
di risa, dono, amore e pietà?

Non ho amato abbastanza nemmeno me stesso,
per quanto prossimo. Non ho amato nessuno.
Salvo quell'uccello - veniva azzurro e pazzo -
che si è sfracellato sull'ala dell'aereo.



Carlos Drummond de Andrade
(da “Claro enigma”, 1951; traduzione mia)