giovedì 30 giugno 2016

il re del jazz_un racconto di Donald Barthelme

Il Re del Jazz

Beh adesso sono il re del jazz, pensò Hokie Mokie tra sé e sé mentre oliava la coulisse del suo trombone. Non c'è stato un trombonista come re del jazz da parecchi anni. Ma ora che Spicy MacLammermoor, il vecchio re, è morto, mi sa che sono io. Forse farei bene a suonare qualche nota fuori da questa finestra, per rassicurarmi.
Wow”, disse qualcuno che se ne stava sul marciapiedie. “Hai sentito?”
Ho sentito”, disse il suo compagno.
Sei capace di distinguere i musicisti jazz americani di casa nostra, l'uno dall'altro?”
“In genere sì.”
E allora chi era a suonare?”
Mi pare proprio Hokie Mokie. Quelle poche note perfettamente selezionate hanno il vero bagliore epifanico.”
Il che?”
Il vero bagliore epifanico, quello che ottengono solo artisti del calibro di Hokie Mokie, che viene da Pass Christian, Mississippi. È il re del jazz, adesso che Spicy MacLammermoor se n'è andato.”
Hokie Mokie mise il trombone nella custodia del trombone e andò a un concerto. Al concerto tutti si inchinarono ai suoi piedi.
Ciao Bucky! Ciao Zoot! Ciao Freddie! Ciao George! Ciao Thad! Ciao Roy! Ciao Dexter! Ciao Jo! Ciao Willie! Ciao Greens!”
Che suoniamo, Hokie? Sei tu il re del jazz adesso, decidi tu.”
Che ne dite di 'Smoke'?”
Wow!”, dissero tutti. “Hai sentito? Hokie Mokie può stendere chiunque, solo per come pronuncia una parola. Che intonazione quel ragazzo! Dio onnipotente!”
Non voglio suonare 'Smoke'”, disse qualcuno.
Ti dispiace ripetere, straniero?”
Non voglio suonare 'Smoke'. 'Smoke' è moscio. Non mi piacciono gli accordi. Mi rifiuto di suonare 'Smoke'”.
Si rifiuta di suonare 'Smoke'! Ma Hokie Mokie è il re del jazz e ha detto 'Smoke'!”
Amico, vieni da fuori città o cosa? Che significa che ti rifiuti di di suonare 'Smoke'? E a proposito, come sei capitato qui? Chi ti ha ingaggiato?”
Sono Hideo Yamaguchi, vengo da Tokyo, Giappone.”
“Oh, sei uno di quei giapponesi, eh?”
“Sì, sono il più grande trombonista di tutto il Giappone.”
“Beh, sei il benvenuto finché non ti sentiamo suonare. Dimmi, il Tennessee Tea Room è ancora il miglior posto per il jazz a Tokyo?”
“No, adesso il miglior posto a Tokyo è lo Square Box.”
“Carino. Ok, adesso suoniamo 'Smoke' come ha detto Hokie poc'anzi. Pronto, Hokie? Ok, te ne conto quattro. Uno! Due! Tre! Quattro!”
I due che se ne stavano sotto la finestra di Hokie l'hanno seguito nel club. Adesso dicono:
“Dio buono!”
“Si, quello è il famoso stile 'Alba Inglese' di Hokie. Suona con un sacco di raggi che vengono fuori, alcuni rossi, alcuni blu, alcuni verdi che partono da un centro viola, alcuni color oliva che partono da un centro bruno...”
“Anche quel giovanotto giapponese è bravino.”
“Sì, è proprio bravo. E tiene il trombone in un modo tutto particolare. Spesso quello è il segno dei grandi musicisti.”
“Tutto piegato con la testa tra le ginocchia... Dio buono, è sensazionale!”
È sensazionale, pensò Hokie. Forse dovrei ammazzarlo.
Ma in quel momento qualcuno entrò dalla porta di fronte a lui spingendo una marimba da quattro ottave e mezzo. Sì, era Fat Man Jones, e cominciò a suonare ancora prima di essere passato per la porta.
“Che stiamo suonando?”
“Billie's Bounce.”
“Proprio come pensavo. In che siamo?”
“Fa.”
“Proprio dove pensavo. Non suonavi con Maynard?”
“Sì, sono stato in quella band per un po' prima di finire in ospedale.”
“Per cosa?”
“Ero stanco.”
“Che cosa possiamo aggiungere alla fantastica musica di Hokie?”
“Che ne dici di un po' di pioggia o di stelle?”
“Forse un po' presuntuoso?”
“Chiedigli se gli dà noia.”
“Chiediglielo tu, io ho paura. Non si cincischia con il re del jazz. Anche quel giovanotto giapponese è bravino.”
“È sensazionale.”
“Credi stia suonando in giapponese?”
“Beh, non penso sia inglese.”
Sono trentacinque anni che questo trombone mi fa diventare verde il collo, pensò Hokie. Come mai devo ancora sostenere una sfida, alla mia età?
“Beh, Hideo...”
“Sì, Mister Hokie?”
“Hai suonato bene sia su 'Smoke' sia su 'Billie's Bounce'. Sei bravo quasi quanto me, mi dispiace dirlo. In effetti, ho deciso che sei *meglio* di me. Odio questa constatazione, ma così è. Sono stato il re del jazz soltanto per ventiquattr'ore, ma la spietata logica di quest'arte mi impone di inchinarmi alla Verità, quando la sento.”
“Forse si sbaglia?”
“No, le orecchie ce le ho. Non mi sbaglio. Hideo Yamaguchi è il nuovo re del jazz.”
“Vuol essere re emerito?”
“No, adesso metto via il trombone e sgattaiolo via. Il concerto è tuo, Hideo. Puoi scegliere il prossimo brano.”
“Che ne dice di 'Cream'?”
“Ok, avete sentito che cosa ha detto Hideo, è 'Cream'. Sei pronto, Hideo?”
“Hokie, non te ne devi andare. Puoi suonare anche tu. Spostati soltanto un po' da quella parte...”
“Grazie, Hideo, è molto gentile da parte tua. Penso che suonerò un pochino, dato che sono ancora qui. Pianissimo, ovviamente.”
“Hideo è strepitoso su 'Cream'!”
“Sì, immagino sia il suo pezzo forte.”
“Ma che cos'è questo suono che arriva da quell'angolo là?”
“Quale angolo?”
“A sinistra.”
“Vuoi dire quel suono che suona come l'avanguardia della vita? Quel suono come di orsi polari che attraversano le padelle di ghiaccio polari? Quel suono come una mandria di buoi muschiati a tutta velocità? Quel suono come di trichechi maschi che si tuffano sul fondo del mare? Quel suono come di soffioni che fumano sui versanti del Monte Katmai? Quel suono come di un tacchino selvatico che passeggia nelle soffici profondità di una foresta? Quel suono come di castori che masticano alberi negli acquitrini degli Appalachi? Quel suono come di un fungo ostrica che cresce sul tronco di un pioppo? Quel suono come di un cervo mulo che vaga sulle pendici della Sierra Nevada? Quel suono come di cani della prateria che fischiano? Quel suono come di erba che rotola sulle anse di un fiume? Quel suono come di lamantini che ruminano alghe a Cape Sable? Quel suono come di procioni che si muovono in branchi attraverso l'Arkansas? Quel suono come...”
“Dio buono, è Hokie! Persino con la sordina montata, sta buttando Hideo giù dal palco!”
“Adesso Hideo è in ginocchio! Dio buono, sta prendendo dalla cintura una grossa spada d'acciaio... Fermatelo!”
“Wow! È stata la 'Cream' più eccitante mai suonata! Hideo è a posto?”
“Sì, qualcuno gli sta portando un bicchier d'acqua.”
“Hokie, sei il mio eroe! È stata la cosa più cazzutevole che io abbia mai visto!”
“Sei di nuovo il re del jazz!”
“Hokie Mokie è lo spettacolo più spettacolare che c'è!”
“Sì, Mister Hokie, signore, devo ammettere che mi ha buttato giù dal palco. Mi accorgo che ho ancora tanti anni di lavoro e di studio davanti a me.”
“Non c'è problema, figliolo. Non ci pensare per niente. Capita ai migliori fra noi. O capita quasi ai migliori fra noi. Ora voglio che tutti si divertano perché suoneremo 'Flats'. 'Flats' è la prossima.”
“Con il suo permesso, signore, ritorno al mio hotel e faccio le valigie. Sono profondamente grato per tutto ciò che ho imparato qui.”
“Non c'è problema, Hideo. Buona giornata. Eh eh. E adesso, 'Flats'.”
(traduzione mia)

mercoledì 29 giugno 2016

le trappole del traduttore




Leggo "La leggenda del trombettista bianco" (Young Man With A Horn, 1938) di Dorothy Baker, recentemente tradotto per i tipi di Fazi. Un romanzo vagamente ispirato alla figura di Bix Beiderbecke, portato anche al cinema, nel 1950, da Michael Curtiz, in un film dalla sceneggiatura molto mediocre, riscattato da una bella messa in scena, da una splendida colonna sonora (di Harry James) e da un cameo del grande Hoagy Carmichael come attore.
Comunque: tutto sommato un bel libro, tradotto abbastanza bene (cosa non banale per i romanzi che parlano di musica, di jazz soprattutto). Si può anche sorvolare sull'ammiccamento baricchiano nel titolo tradotto: business is business. Traduzione di Stefano Tummolini, che ringrazia il trombettista Ernesto Toesca per l'aiuto sulle "questioni più tecniche".
Peccato che l'inevitabile scivolone arrivi a pag. 162, dove "a trap set" (ossia una batteria, nel gergo jazzistico), diventa una assurda "serie di trappole":
...una specie di salottino al sesto piano con un palco non più grande di due metri quadrati, un piano verticale, una serie di trappole e Louie Galba seduto su una sedia da cucina in bilico sul bordo del palco che suonava una tromba mentre una donna cantava una canzone.
E vabbè, non tutte le ciambelle riescono col buco...

martedì 28 giugno 2016

the gentle giant



Oh, a me per Bud Spencer dispiace. Lui e Terence Hill sono parte delle memorie d'infanzia mie e della mia generazione.
I loro film non sono capolavori immortali, ma non sono nemmeno il trash per cui spesso li si vuole far passare, accomunandoli magari ai vari Lino Banfi, Alvaro Vitali e compagnia scorreggiante. I film della coppia sono film comici, certo, e di una comicità immediata ed elementare; non opere impegnate, né tantomeno arte. Però sono sempre garbati, mai volgari, girati molto meglio di tanta robaccia che passa come "cinema d'autore".
Bud e Terence (parlo del Terence pre-tonaca ovviamente) sono stati due maschere, come lo erano i comici della Commedia dell'Arte o dell'avanspettacolo. Hanno riproposto in tutti i loro film sostanzialmente gli stessi personaggi: due picari dal cuore d'oro, che tiravano a campare arrangiandosi come potevano, ma che alla fine, quasi senza volerlo, si ritrovavano sempre dalla parte dei buoni.
Ecco, il nocciolo dei loro film è questo: buoni e cattivi sono facilmente riconoscibili e bastano un paio di ceffoni a sistemare tutto, tanto alla fine nessuno si fa davvero male. Consolatorio? Forse. Ma in fondo, per tutti noi, quei film rappresentano una sorta di terra dell'innocenza.

domenica 26 giugno 2016

BREXIT

Che l'Europa negli ultimi venti o trent'anni abbia smesso (se mai lo è stata) di essere "unione" e sia diventata un coacervo di interessi privati;
che l'asse franco-tedesco sia stato la sua rovina;
che il trattamento riservato ai paesi più deboli sia stato indecente (vedi il caso greco, dove comunque ci sarebbe molto da discutere sulla responsabilità dei governi locali);
che sull'euro si sia speculato oltre il tollerabile;
che ormai nella percezione collettiva "Europa" indichi un potere oppressivo e tirannico;
che non si sia creato né un governo centrale, né tantomeno un'identità europea condivisa;
che i soldi facciano girare il mondo (e lo sapeva anche mia nonna, senza che Marx glielo spiegasse in termini scientifici)...
...tutto ciò mi pare una verità autoevidente.

Che la soluzione sia "liberi tutti, ognuno per sé, si salvi chi può", come da certuni sento auspicare in questi giorni, mi pare quantomeno discutibile.

lunedì 20 giugno 2016

premiazione (ed errata corrige)

Se qualcuno si trova da quelle parti, venerdì 24 giugno nel ridente paesino di Teglio, al confine tra Veneto e Friuli, si terrà la premiazione dell'omonimo concorso poetico. Del quale il vostro affezionatissimo blogger è quest'anno il vincitore.

Avvertenza: per motivi organizzativi, la cerimonia non si terrà a Villa Dell'Anna, come indicato nel manifesto, bensì a Villa Borghesaleo, alle ore 21.




sabato 11 giugno 2016

new book on the way

Dunque, cominciamo come di prammatica: dal principio.
Il mio primo libro di poesia fu una plaquette, Topografia della solitudine, uscita nel 2010 in un volume collettaneo per Fara Editore. Raccontava di un viaggio a New York che feci nel 2004, ma fu scritta in realtà un paio d'anni dopo, tra il 2006 e il 2008 circa.
Poi, nel 2011, uscì un'altra plaquette, intitolata Parole agli assenti, nel volume "Contatti" (Edizioni Smasher). Si trattava di poesie composte nel biennio precedente, con qualche repêchage un po' più datato.
Nel 2014, fu la volta della mia prima silloge autonoma, Approssimazioni (Pietre Vive), che conteneva testi del 2011-2013. L'anno scorso c'è stato Oltre il margine (Fara Editore), scritto subito dopo il precedente.

Perché vi racconto tutto ciò? Perchè in realtà c'era un altro libro, che continuava ad ossessionarmi come lo spettro di Banquo. 
Si chiamava Un posto per la buona stagione e avrebbe dovuto essere il mio primo. Raccoglieva il fior fiore di ciò che avevo scritto in gioventù, perché il nucleo comprendeva testi del 2006-2010, ma alcuni risalivano ancora più indietro, fino al 2001-2002 circa.
Quel libro lo misi insieme tra il 2011 e il 2012; nell'ottobre 2012 lo spedii a un editore, de cuyo nombre no quiero acordarme, del quale all'epoca mi fidavo. Dopo un'attesa piuttosto lunghetta, nella primavera del 2013 mi comunicarono che era stato accettato e sarebbe uscito "a breve".
E qui comincian le dolenti note: perché "a breve" cominciò a durare piuttosto a lungo. Ogni tanto, l'editore spariva per mesi, poi si rifaceva vivo con le bozze da correggere. Sempre le stesse, che avevo già corretto mesi prima. Glielo facevo notare, si scusava. Poi spariva di nuovo. Poi riappariva, inventando ogni volta bugie sempre più fantasiose.
Dopo un annetto o due di questa solfa, cominciai a subodorare il marcio (lo so, sono lento di comprendonio) e mi informai in giro. Scoprii che quella era la sua politica: lo faceva con tutti. Il perché, non sono tuttora riuscito a spiegarmelo, ma tant'è.
A quel punto, rescissi il contratto, d'altra parte ormai scaduto, e lo mandai educatamente a sfogare i propri bisogni fisiologici altrove.

Rimaneva il problema del libro. Ormai eravamo nel 2015 e io mi trovavo in mano un testo assemblato quattro anni prima, con poesie ormai vecchie anche di dieci anni e più. Cose in cui non mi riconoscevo affatto ("non son chi fui, perì di noi gran parte...").
Che farne? Lasciarlo nel cassetto o riprovarci? La prima tentazione era forte, ma un po' c'era la ripicca, un po' quelle liriche avevano (e hanno), per tutta una serie di ragioni, un forte valore affettivo.
A quel punto lessi l'avviso di un premio di poesia; che, a differenza di tanti altri, era serio, e lo dimostrava la giuria, composta da nomi di assoluto prestigio. Insomma, to make a long story short, decisi di proporglielo: e glielo mandai così com'era, senza quasi cambiare una virgola, perché sapevo che, se avessi cercato di rimaneggiarlo, avrei finito per riscriverlo da cima a fondo.

Ieri sera, mentre ero a cena fuori con moglie e figli perché era il nostro decimo anniversario di matrimonio*, mi arriva una telefonata. Come ormai avrete capito, il premio l'ho vinto e il libro, il mio Sorgenkind, uscirà per i tipi di Qudu.
Qui tutti i dettagli.
All is well that ends well.



* P.S.: che la notizia mi sia stata comunicata proprio in quella circostanza, ha una sua bellezza poetica, dato che il libro è dedicato a mia moglie e ai miei figli.

venerdì 10 giugno 2016

haiku

Lorsque je te songe tes yeux
devient des pages
j'y lis des très longs poèmes.


Quando ti sogno i tuoi occhi
diventano pagine
ci leggo dentro poesie lunghissime.

mercoledì 8 giugno 2016

poesie per un'amica lontana - 5

Into the distance

Quando le osservi da molto vicino
le lettere hanno i margini sfilacciati
non si afferra il trapasso dal bianco
soltanto segni sempre più densi
fino al nero

così mi trovo a chiedermi stasera
quale sia la differenza con il buio
non sarebbe più rapido e indolore
smettere di opporre resistenza
cadere a piombo

se non fosse questo filo sottilissimo
che continuo a lanciare nel vuoto
all'altro capo del silenzio
devono esserci le tue mani
o sarebbe inutile.

martedì 7 giugno 2016

rileggendo Paz

Quando lessi per la prima volta "Pentothal", erano i primi anni Novanta (azzardo una data: 1992),  stavo per compiere diciott'anni e Pazienza era morto da poco, senza che io (nato e cresciuto nel paese suo e dei suoi genitori) l'avessi mai sentito nominare.
"Penthotal" (e anche "Zanardi", e "Sturiellett", e "Pompeo", e poi tutto il resto) mi sconvolsero. Per non parlare delle sue tavole originali, che vidi in mostra a San Severo. Abbaglianti, anzi direi umilianti per chi come me aveva qualche ambizione nel campo del disegno.

Ovviamente non avevo idea del contesto: non conoscevo la Bologna del Settantasette, mi sfuggivano i tre quarti delle allusioni contenute nelle tavole di Pazienza, molte delle quali fra l'altro riguardavano la sua vita privata, i suoi amici e conoscenti, e così via.
Però potrei recitare ancor oggi a memoria quasi tutti i dialoghi di quelle pagine, che mi colpirono con l'intensità possibile solo nell'adolescenza, quando tutte le impressioni sono tanto più forti in quanto non mediate.

Rileggo "Penthotal" oggi che: ho quarantun anni, so che cos'è successo a Bologna nel Settantasette, conosco abbastanza di Andrea Pazienza e della sua biografia da cogliere (quasi) tutti i riferimenti e posso filtrare parole e immagini attraverso una serie di mediazioni culturali che all'epoca non possedevo.
Però la forza di quelle tavole rimane assolutamente invariata.

lunedì 6 giugno 2016

Columba livia

Il piccione rimpiange le falesie
dove secoli fa nidificava.
Intanto stria l'intonaco di bianco
e disturba la siesta agli inquilini.

Se non muore stampato sull'asfalto
preferisce nascondersi
agonizzare al buio dei solai
perché nessuno veda le sue ossa.

domenica 5 giugno 2016

non tornano i conti

"Addio monti sorgenti"...
Un magnifico detto (non servono commenti)
che ci serba la mente che non erra.
Ma non sempre però tornano i conti:
da nessun'acqua a noi sorgono monti
e non abbiamo terra.


Tommaso Landolfi, Des mois

sabato 4 giugno 2016

Roma

"Una caratteristica di Roma è la sua indecifrabilità. E’ come se Roma fosse ricoperta da una guaina morbida, elastica, che impedisce di vedere con precisione i lineamenti, nasconde allo sguardo gli angoli acuti, rende tutto uniformemente morbido, rotondo, mucillaginoso. Tutto vi diviene inespressivo, ipnoticamente inespresso, come un corpo ricoperto da uno strato di grasso che celi le sue forme.
Tutte le manifestazioni di una città – la stupidità della gente o la sua intelligenza, la violenza, il pericolo, ecc. ecc. – sono a Roma attutite, quasi cancellate o comunque ricoperte da questa melina appiccicosa. I romani non sono gentili, ma non sono esenti da una loro cordialità. Non sono brutali. Alcuni di essi – uomini, settori – lo sono, certamente, ma tale brutalità è nascosta dall’indifferenza della città. La città come copertura. Caratteristica precipua e comune del romano è infatti la sua indifferenza, che si sposa a uno scetticismo ormai atavico. Un romano non crede nella realtà, non prova forti sentimenti o forti emozioni o forti desideri; è generalmente simpatico, caratterizzato da uno humor menefreghista che è l’emblema di tutta la città. Diceva una battuta della Dolce vita: Roma è un ottimo posto per nascondersi. Questa è una caratteristica di ogni grande città, ma in Roma il nascondersi è particolarmente dolce, tra l’indifferenza della gente, e la vita facile delle sue trattorie. Il pericolo a Roma non viene mai avvertito, così come la morte; a Roma si può essere aggrediti senza accorgersene, perché tutto rimbalza nella consistenza gommosa di questa città. Si muore senza accorgersene, e senza che gli altri ci facciano caso, non per cinismo (il cinismo presuppone delle passioni, odio, ambizione, che a Roma mancano) ma per indifferenza. Il romano non è certo fanaticamente dinamico, ma non ha nemmeno l’indolenza felina dei napoletani. Roma è il posto ideale per vivere soli e per morire soli, senza che questa solitudine acquisti nulla di drammatico; al massimo può essere noiosa (Roma, pur non essendo stimolante, non è neanche una città veramente noiosa, come può esserlo una città di provincia). A Roma, piuttosto, i sensi si ottundono. A Roma manca anche la paura, che dura un secondo, dopo di che si ritorna ad una allegra carnale indifferenza. Lungi dal terrore, Roma può essere la città della depressione – delle croniche, morbide crisi depressive…
Ma nello stesso tempo Roma ha un pregio: essendo una città fantasma, una città immaginaria, sonnambula, può favorire grandi e pacate allucinazioni. Una persona a Roma potrebbe fingersi idiota e vivere una vita nascosta, marginale, e soccombere sotto il peso di ancestrali e antichissime colpe".

(Carlo Bordini)

venerdì 3 giugno 2016

tanka

L'odore del tuo corpo
durante e dopo
l'amore: ne conservo
tracce segrete fiamme
riaccese sulle mani.

giovedì 2 giugno 2016

Aplysia depilans

Da quanto tempo non incontro un'Aplysia?
I fondali, sabbiosi e scogliosi, della mia infanzia erano popolati da telline, cannolicchi, vongole, granchi (ricordo le enormi "pelose", Pilumnus hirtellus, rintanate negli anfratti), pomodori di mare, patelle, ricci, mitili, paguri, cappesante, giovani bavose, meduse dal bellissimo mantello bianco e violaceo. Bastava tirare su una manciata di sabbia, per pescare qualcosa di vivo. Non parlo della preistoria, ma dei tardi anni Settanta-primi Ottanta, tempi di spiagge libere e di macchie di catrame sotto le piante dei piedi, spalmate d'olio per farle andar via.
Ogni tanto si incrociava un'Aplysia (nota anche come “lepre di mare”). Avrebbe ricordato tanto un grosso lumacone nerastro, se non fosse che nuotava aprendo e chiudendo in eleganti ondulazioni il mantello, sotto il quale si intravvedeva il corpo pulsare come un muscolo cardiaco. C'era la credenza che fossero urticanti e velenose (e lo sono, ma solo se ingerite); o, peggio ancora, che si attaccassero malignamente alla pelle di chi tentava d'afferrarle (da cui il nome scientifico).
Ovviamente io non ne conoscevo il nome; né sapevo fosse un animale prediletto dagli scienziati, per via del suo sistema nervoso composto di soli ventimila neuroni; e ignoravo anche che fosse ermafrodita e custodisse al suo interno una delicata conchiglia dai riflessi madreperlacei. A me piaceva osservarle sott'acqua (ero capace di passare ore intere in mare, da solo, con maschera e boccaglio, finché i polpastrelli non mi si riempivano di rughe), prenderle in mano per palparne la consistenza piacevolmente turgida.
Un giorno ne trovai decine e decine arenate sugli scogli. Tutte moribonde. Un uomo e suo figlio le stavano meticolosamente trafiggendo con un ramoscello appuntito. Chiesi perché. “Sono pericolose”, risposero. “Si attaccano alla carne e te la mangiano”. Dissi che le prendevo sempre in mano e non mi avevano fatto alcun male. Non mi credettero. “Sei stato fortunato”, continuavano a ripetere.
Un'altra volta vidi una giovane coppia di fidanzati che ne osservava una, finita chissà come tra le secche presso la battigia. Non osavano avvicinarsi; quando lo feci io, lui mi fermò, allarmato.
Io la raccolsi e la lasciai libera, a qualche metro dalla riva.
Credo sia stata l'ultima volta che ne ho vista una.

mercoledì 1 giugno 2016

poesie per un'amica lontana - 4

Posso regalarti la mia voce
soltanto le cose più leggere
sopravviveranno alla catastrofe
forse questo battito di sillabe
ti cadrà sulle palpebre chiuse
ti sveglierai a un brusio di ricordi.